Lo tsunami è arrivato. E come promesso dal tour che l’aveva preceduto nelle piazze, è stato devastante. L’onda anomala e gigantesca di Beppe Grillo si abbatte sul sistema politico italiano, e lo stravolge per sempre. Il “non-partito” Cinque Stelle è il primo partito del Paese. La metamorfosi è compiuta. Il comico genovese diventa un leader vero, che esce dalla rete della Wiki-politica ed entra a pieno titolo nel circuito delle istituzioni. Il voto del 24-25 febbraio diventa un gigantesco Vaffa-Day. La tempesta grillina seppellisce definitivamente la Prima e la Seconda Repubblica, e uccide sul nascere la Terza.
Tra le macerie restano un Parlamento difficilmente governabile e un corpo elettorale altamente infiammabile. La sinistra assapora il retrogusto assai amaro di una vittoria quasi simbolica: grazie a una manciata di voti: può lucrare l’alto premio di maggioranza garantito dal Porcellum alla Camera, ma non può avere l’autosufficienza dei seggi al Senato, neanche con l’inutile stampella di Monti. Al fondo, hanno prevalso i populismi. Le forze che hanno investito sulla rabbia sociale, scaricandola contro l’Europa e le tasse, e sulla domanda di rottura istituzionale, scagliandola contro il vecchio “ceto politico” o la nuova élite tecnocratica. Ha vinto il populismo di Grillo, che è un impasto identitario complesso e contraddittorio, post-ideologico e post-materialista, al tempo stesso arcaico e ultramoderno. Lo «strano animale» irrompe nelle Camere, con 150 eletti che spazzano via specie ormai quasi giurassiche, da Fli di Fini all’Idv di Di Pietro, e che cambiano i connotati del «bipartitismo egemonico» di questi ultimi due decenni. I due partiti di massa si livellano, e il Nuovo Centro di Monti (a dispetto dell’incomprensibile soddisfazione del Professore) dimostra tutta la sua insostenibile leggerezza.
La vera «Terza Forza» è in realtà Grillo. Come dice il suo guru Casaleggio, il Movimento 5 Stelle trionfa perché svolge al meglio il compito del «bidone aspira-tutto ». Fa piazza pulita delle odiate, vecchie «cariatidi» del Palazzo, e succhia consensi ovunque. Destra e sinistra, centro e non voto. Questo era noto già dalle ammini-strative del maggio scorso. M5S nasce in effetti come «costola della sinistra», visto che il 46% dei suoi elettori proviene dalla sinistra radicale e libertaria. Ma ora fa il pieno anche a destra, da dove arrivavano già il 38,9% dei suoi voti, e dove adesso prosciuga non solo il Pdl, ma soprattutto la Lega.
Parlare di «anti-politica», a questo punto, diventa davvero riduttivo. Come già scrivemmo dopo il successo della tornata locale del maggio 2012, nello tsunami grillino c’è anche una forte domanda di «altrapolitica », non solo qualunquista e non solo protestataria, alla quale i partiti tradizionali non hanno saputo dare risposta in questi mesi. Eppure c’era tempo, per un’autoriforma della politica che avrebbe riavvicinato i cittadini alle istituzioni. C’era tempo per tagliare il numero dei parlamentari, eliminare le province, abbattere gli stipendi d’oro e le prebende degli eletti, mentre gli elettori sacrificavano fino all’ultimo centesimo sull’altare del «rigore necessario». Non è successo niente. Molti italiani hanno gridato, quasi nessuno li ha ascoltati. Grillo è diventato la risposta.
Per il capo carismatico comincia un’altra storia. Insulti e anatemi non bastano più. La protesta è legittima, ma non serve se non hai una proposta. E di fronte alla crisi italiana la proposta non può essere né l’allucinazione dell’uscita dall’euro o del rifiuto di pagare il debito pubblico, né l’illusione della «decrescita felice» o dell’«energia sostenibile». Ora che ha sfondato le mura dell’esecrato Palazzo d’Inverno, tocca a Grillo decidere se vuole crogiolarsi ancora nella dimensione esagitata del Web-populista, o vuole fare davvero Politica.
La sinistra è premiata dal calcolo aritmetico, ma ora ha a sua volta un enorme problema politico. Il Pd (insieme a Sel) ha avuto la meglio alla Camera, per poche centinaia di migliaia di voti. Nella forma, Costituzione alla mano, può dunque rivendicare il diritto di costituire un governo. Ma nella sostanza la vittoria del Pd è puramente virtuale. Per una sinistra riformista, consapevole del suo ruolo e convinta dei suoi mezzi, non poteva esserci occasione migliore di questa. Un ciclo declinante delle destre europee, una politica di austerità neo-liberista rimessa in discussione ovunque, un Pdl ridotto a ectoplasma dalle sue lacerazioni interne, una possibile saldatura con il centro moderato, all’insegna della crescita, dell’equità, dell’adesione ai valori dell’Europa e ai canoni dell’Occidente. Ebbene, questa occasione è stata persa. Il Paese non ha capito, e non ha seguito. Il Pd «a vocazione maggioritaria» è rimasto ben al di sotto della quota massima raggiunta nel 2008 da Veltroni, e non ha sfruttato in alcun modo il suo potenziale espansivo. Bersani ha commesso un errore fatale. Ha gestito al meglio le primarie, mettendosi in gioco e vincendo. Ha completato l’opera di legittimazione dei gruppi dirigenti con le «parlamentarie». Ma da allora, colpevolmente, ha considerato compiuta la sua missione.
Ha smesso di fare campagna elettorale, convinto che il suo unico compito sarebbe stato quello di amministrare il vantaggio registrato dai sondaggi. Ha pronunciato parole di buon senso. Si è rifiutato di inseguire Berlusconi nella folle rincorsa alle promesse fiscali, e di fare concessioni a Ingroia a sua volta impegnato a sabotare l’alleanza e punito dall’irrilevanza di un voto inutile. Ma non ha saputo riempire di contenuti visibili e di obiettivi comprensibili il suo «messaggio di responsabilità ». Si può dire agli elettori qualcosa di molto concreto su quanto e quando si vogliono ridurre le tasse, o su come e dove si vuole creare lavoro per i giovani, senza bisogno di spararla più grossa del Cavaliere. Bersani non l’ha fatto. Ha scommesso tutte le sue carte sul pragmatismo del buon amministratore emiliano, e sul realismo del bravo ministro dello Sviluppo che è stato. Non ha indicato una vera direzione di marcia. Ha coinvolto Matteo Renzi troppo tardi, in una campagna elettorale dove avrebbe dovuto farsi inseguire, e invece alla fine è stato costretto a rincorrere. Ha tentato l’esorcismo del «giaguaro da smacchiare». E lì si è fermato. È stato un tragico abbaglio, che oggi rende purtroppo la coalizione di Bersani ancora più fragile dell’Unione di Prodi.
Resta infine la destra. Se quello dell’ormai ex comico di Genova ha trionfato, il populismo del Cavaliere di Arcore ha resistito. Sembra assurdo anche dirlo, dopo i disastri dell’ultimo governo che ha guidato: ma Berlusconi ha letteralmente resuscitato un cadavere. Il suo Pdl era morto, dopo il crollo del dicembre 2011. Ha iniziato la campagna elettorale con i sondaggi che lo
accreditavano di un 15-18%. Non poteva vincere queste elezioni. Ma in due mesi ha recuperato oltre 10 punti: un’enormità. Aver impedito la vittoria piena del centrosinistra, ed aver ottenuto il maggior numero di seggi al Senato, per lui vale quanto il trionfo del 2008. Per quanto logoro e bugiardo, l’uomo simbolo dell’anomala destra italiana si conferma un «campaigner» formidabile, capace di combattere come nessun altro, contro i suoi avversari e contro i suoi stessi fantasmi. Certo, vince scommettendo sul peggio. Il condono tombale parla alla zona grigia dell’illegalità fiscale, dove convivono gli imprenditori arrabbiati del lombardo- veneto e gli impiegati pubblici che arrotondano in nero. La promessa della restituzione dell’Imu parla ai poveri cristi, pensionati e dipendenti, che hanno appena pagato la stangata e si sono messi in fila per ottenere il rimborso dopo aver ricevuto la lettera dell’ex premier. Ma tutte queste vergogne, e tutte queste menzogne, non bastano a scongelare un blocco sociale tenuto insieme dagli interessi più che dai valori, che non solo resiste dopo 17 anni di fallimenti, ma in parte si ricompone intorno a una destra anomala, plebiscitaria e altrove impresentabile, e intorno alle sparate irresponsabili
del suo mentore. Nonostante i suoi processi pubblici e i suoi scandali privati, il Cavaliere ha ancora un suo «popolo». E con il Cavaliere bisogna ancora fare i conti, anche nella nuova legislatura.
Si è infine materializzato quello che perfino gli osservatori e i mercati internazionali consideravano il peggiore degli incubi. Fare un governo, in queste condizioni, è impossibile. Un governo di sinistra, forte del solo premio di maggioranza alla Camera, sarebbe un azzardo pericolosissimo. Lo scioglimento del solo Senato, e un nuovo voto solo a Palazzo Madama, sarebbe un rischio anche peggiore. Restano due ipotesi. Un governo di larghe intese, sul modello dell’ultimo Monti, per fare almeno la riforma della legge elettorale. Oppure un ritorno immediato alle urne, che significherebbe consegnare definitivamente l’Italia a Grillo. Tutto è nelle mani di Giorgio Napolitano, che sperava in tutt’altro finale. Come lo speravamo tutti noi, sprofondati nell’infinita transizione di questa democrazia italiana che non sa, non può o non vuole diventare normale.
La Repubblica 26.02.13