Nella cabina elettorale Dio ti guarda, Stalin no. Così recitava un memorabile slogan delle campagne elettorali democristiane negli anni ’50. Si potrebbe attualizzarlo così: nella cabina elettorale dell’anno di grazia 2013 è l’Europa che ci guarda. Anzi, non solo ci guarda ma è, per così dire, lì con noi. Oddio: può turbare qualcuno l’idea di portarsi dentro al seggio Angela Merkel, François Hollande, Cameron o Barroso e Van Rompuy. O magari Barack Obama, sia pure in spirito. Ma è proprio come se ci fossero. Perché mai nella storia le elezioni politiche italiane sono state attese con tanta partecipazione, e anche una certa ansia, al di là delle Alpi e oltre il mare. E mai sono state così influenti sulla vita dei non italiani.
Certo, da quando è iniziata la faticosissima corsa dell’Europa verso il proprio compimento politico ogni elezione è stata importante non solo per i cittadini del paese in cui si teneva ma per tutti gli europei. È un fatto logico, che ci dovrebbe spingere a capire quanto sia più che mai insensato, qui e oggi, parlare di «ingerenza». Ma mai come questa volta la posta in gioco è decisiva per tutti. Basta guardare i maggiori quotidiani europei e navigare tra i siti per accorgersi dell’attenzione enorme, in qualche caso venata da un filo di inquietudine, che l’opinione dell’opinione pubblica continentale dedica al voto in Italia. E quasi tutti prendono posizione. In base alle loro preferenze politiche, è ovvio, ma con una certa onestà super partes. Come fa, per citarne uno solo, il notissimo editorialista del Financial Times e dello Spiegel Wolfgang Münchau, il quale invita i suoi lettori a immaginare che alle elezioni dovessero scegliere tra «un clown, un miliardario condannato in prima istanza per evasione fiscale, un politico burocrate di sinistra che non capisce nulla di economia e un professore di economia conservatore che non capisce nulla di politica». Lui tutto sommato ha più simpatia per il «burocrate di sinistra» e gli augura di vincere nettamente le elezioni per non dover cercare compromessi con il «professore conservatore» che qualche tempo fa bollò come del tutto «inadatto» a guidare l’Italia fuori dalla crisi. Non è l’unico, va detto, a esternare anche in campo conservatore simpatie più o meno moderate per il centrosinistra, che è un giudizio diffuso meglio garantirebbe le ragioni della stabilità.
Il voto italiano è guardato con tanto interesse anche perché cade a metà cammino d’una stagione che vede in discussione il potere e gli equilibri politici nei tre paesi più importanti dell’Europa continentale. Si è partiti dall’elezione di Hollande nel maggio scorso e si arriverà alle elezioni federali del prossimo settembre in Germania. Nel giro di sedici mesi nell’Unione europea e nella comunità dei paesi dell’euro è già cambiato molto e potrebbe cambiare tutto: la politica, le prospettive economiche, gli umori dei cittadini, le loro paure e le loro speranze. Si decide e si deciderà in che modo i governi e le istituzioni di Bruxelles dovranno affrontare la crisi che si sta mangiando il benessere e la fiducia degli europei: se la disciplina di bilancio dovrà essere tirata fino alle estreme conseguenze come s’è fatto finora e come prescriverebbe l’attuazione rigida del Fiscal compact o se si potrà andare a cercare margini e risorse per cambiare strada, guardare in primo luogo al lavoro e puntare sugli investimenti possibili anche in questa stagione di vacche magrissime.
Che l’alternativa vera, importante, sia questa lo ha mostrato la campagna elettorale in Italia come lo aveva mostrato quella della primavera scorsa in Francia. Anche da noi si è parlato di economia, anche se soprattutto di tasse e troppo poco di occupazione e redistribuzione delle risorse. Se ne è parlato, purtroppo, in un modo pesantemente condizionato dal peggior populismo di Berlusconi, che i leader e le pubbliche opinioni degli altri paesi temono come la peste, e di Grillo, la cui spinta disgregante non è stata, forse, compresa del tutto fuori dai confini d’Italia. In gioco c’è stata, c’è, l’alternativa tra due strategie per combattere la crisi fondamentalmente diverse.
Una parte dello schieramento politico ha cercato di tenerci dentro il pensiero unico economico che aveva dominato le classi dirigenti per tre anni, condizionando anche l’iniziativa dei progressisti. Ma il centrosinistra si è sforzato di rompere quella unicità, sorretto anche da un abbozzo di programma comune di tutta la famiglia socialista e democratica europea. Anche in Germania il dibattito tra gli economisti e il confronto tra i partiti si sta spostando sempre più verso il discrimine dell’alternativa possibile: la recessione indotta dall’austerity à la Merkel comincia a insidiare le certezze un tempo solide di queste parti e l’ora d’un cambiamento di strategia appare sempre più probabile, anche se la popolarità della cancelliera resta ancora molto alta. È ragionevole pensare che dopo le elezioni di settembre, comunque vadano, la politica economica di Berlino non sarà più la stessa.
Dalle urne italiane, stasera, potrebbe uscire la conferma che l’Europa si sta spostando a sinistra e che proprio dentro questa sua mutazione cerca la strada giusta per risollevarsi dal disastro economico. Sarebbe anche un’utile lezione per quelli che vanno gridando che destra e sinistra non esistono più, che sarebbero scomparse insieme nella notte della crisi in cui tutte le vacche sono nere. Ma sarebbe soprattutto la prova che l’Italia, nonostante le sue storiche debolezze, il suo debito pauroso, le disastrose cadute di credibilità del recente passato, i rischi e le vergogne del populismo sfrenato, può riprendere a crescere e a far crescere l’Europa.
L’Unità 25.02.13