Abbiamo votato mettendo una croce su un simbolo di partito secondo quella legge elettorale costruita dalla destra per santificare se stessa negli anni del berlusconismo trionfante e chiamata dal suo stesso autore (il leghista Calderoli, non dimentichiamolo) «una porcata». Speriamo che sia l’ultima volta. Non abbiamo votato per una persona, non abbiamo potuto scegliere il nostro rappresentante in Parlamento tra altri candidati in base alle proposte di ciascuno e, magari, anche per come pensava di affrontare i problemi della nostra città. Abbiamo dato una delega in astratto. Nelle nuove Camere, nessuno di noi potrà dire quello è il mio deputato, voglio sapere come usa il mio mandato, cosa fa per il mio territorio, che responsabilità si prende.
Quella legge che la Consulta ha sanzionato e che il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha instancabilmente invitato il Parlamento a modificare, è simbolicamente il punto di svolta della seconda repubblica.
Seppellendo il bipolarismo, ha soffocato anche quell’idea di rinnovamento politico dopo gli anni di tangentopoli. È l’autobiografia di un sistema e di una classe dirigente: autosufficiente e autoreferenziale, che abbiamo imparato a definire «casta» per la capacità di autoriprodursi e autoalimentarsi. Gli scandali di questi mesi sull’uso dei rimborsi elettorali ne sono la rappresentazione più intollerabile e grottesca.
A voler conoscere i candidati si potevano leggere i nomi nei manifesti all’esterno dei seggi. In molti casi, nei primi posti, quelli «eleggibili», personaggi che nulla avevano a che fare con il territorio. E questo perché non essendoci sanzione popolare, i partiti (ad eccezione del Pd che ha fatto delle pur parziali primarie) hanno costruito le liste in base alle persone che volevano portare in Parlamento, sottraendo agli elettori la scelta delle persone. Una vera logica di casta.
Il nostro Paese ha molti problemi, apparentemente più importanti, ma la qualità di un sistema e la riconoscibilità che esso ha nei confronti dei cittadini è parte stessa del sistema. Il distacco maturato in questi ultimi anni tra elettori e «casta» è clamoroso. Il successo della lista di Beppe Grillo (che questa sera misureremo in termini di voti, ma che è già certificato dallo sconquasso che ha prodotto sul sistema), ha origine esattamente da lì.
In questi giorni in Francia si sta svolgendo un dibattito molto interessante da confrontare con i nostri problemi. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera a una delle riforme del programma di François Hollande: il divieto di cumulo di cariche per i politici. In altre parole, chi è sindaco o titolare di un incarico esecutivo nelle autonomie locali non potrà più essere contemporaneamente parlamentare.
Per i francesi si tratta di una grossa rivoluzione perché il doppio incarico locale e nazionale appartiene al loro modo di far politica: tanto più si pesa localmente, tanto più forte sarà la propria voce in Parlamento e nei ruoli di governo. Chirac ha fatto il primo ministro conservando la carica di sindaco di Parigi. Mitterrand (sempre legatissimo alla sua Nièvre) raccomandava ai giovani socialisti che volevano crescere nel partito: «Fatevi un feudo (“fief”) in provincia». François Hollande, ha atteso nella sua Tulle di cui è stato sindaco per vent’anni l’annuncio della vittoria alle presidenziali. Persino il campionedei libertini Dominique Strauss-Khan è primo cittadino di Sarcelles.
La destra è contraria alla riforma, avendo un’idea notabilare del ruolo di parlamentare; il partito socialista è favorevole, ma spaccato sul farla subito o se aspettare il 2017, fine della legislatura. Il governo deciderà. Ma la cosa significativa su cui dovrebbe riflettere la politica italiana non è questo, bensì sul fatto che il presidente dell’Assemblée Claude Bertolone e il ministro dell’Interno Manuel Valls, entrambi socialisti, sono contrari a far subito la riforma perché un gran numero di parlamentari darebbero le dimissioni e questo provocherebbe una specie di autoscioglimento dell’Assemblée. Tradotto per noi: i politici francesi, messi di fronte all’alternativa tra mandato locale e mandato nazionale preferiscono il primo. Questo perché la politica o ha radici nel territorio o non è. Il collegio elettorale è tutto. E questo vale in ogni democrazia occidentale, a cominciare da quella storica inglese: il parlamentare è parte stessa della sua «costituency». E spesso, quando si determina un conflitto tra partito e interesse locale è quest’ultimo a prevalere.
Il nuovo Parlamento avrà molti dossier da affrontare: questo è uno dei più importanti. Restituire agli elettori la cittadinanza perduta. C’è da augurarsi che vi sia una maggioranza capace di guardare oltre l’interesse di partito perché la prossima volta sarà peggio. E che vi sia una maggioranza forte almeno su questa riforma, oltre gli schieramenti e magari con i grillini, a parole molto impegnati sui temi della democrazia di base e che nella realtà della politica (com’è il caso del sindaco di Parma Pizzarotti) potrebbero rivelarsi meno ideologici e più disponibili del loro intrattabile guru.
La Stampa 25.02.13