«Il mio primo compito è dare stabilità. Nessuno può pensare che in una fase come questa si possa tornare a votare in tempi brevi. Non ripeteremo gli errori del passato». Pierluigi Bersani anche nelle ultime ore che precedono il voto è sicuro che la sua coalizione uscirà vittoriosa dalle urne.
MA SA anche di non potersi permettere di replicare le esperienze litigiose dell’Ulivo e dell’Unione.
Il vero nodo di queste elezioni, infatti, è tutto qui: assicurare al Paese un governo solido e duraturo. Una maggioranza in grado di affrontare uno dei momenti più difficili della storia repubblicana escludendo la soluzione di un’altra interruzione anticipata della legislatura. Il centrosinistra è sicuramente lo schieramento che più di tutti “corre” per vincere le elezioni. E’ quello più accreditato. Eppure questa campagna elettorale si è chiusa lasciando diversi punti interrogativi. Tutti gravidi di potenziali conseguenze drammatiche. A cominciare dal rischio che la frammentazione del voto consegni un Parlamento paralizzato, bloccato nella palude dei veti incrociati e delle scelte confuse. Per la prima volta dal 1994 – da quando cioè è stato introdotto un assetto sostanzialmente bipolare – il sistema politico si presenta alle elezioni con quattro poli. Un dato che può riflettere, soprattutto al Senato, una situazione di assoluta ingovernabilità.
Se, infatti, la legge elettorale garantisce alla Camera una maggioranza netta con un premio che assegna alla prima coalizione circa 340 seggi, a Palazzo Madama il gioco dei “bonus regionali” potrebbe costringere Bersani a trattare dopo le elezioni il sostegno di altri schieramenti. Se si trattasse – come previsto da quasi tutti – di discutere con Mario Monti un patto di governo, il problema sarebbe con ogni probabilità risolto rapidamente. Basti pensare a quello che venerdì sera ha detto proprio il presidente del consiglio: «Mai con Vendola? Vedremo… ». Una sorta di “mai dire mai” che ha di fatto aperto la strada al confronto.
Ma il punto è proprio questo: l’alleanza Bersani-Monti sarà la strada più ragionevole e quella più agevolmente praticabile. L’attuale legge elettorale – il Porcellum – lascia però aperto uno spazio amplio all’imponderabile: potrebbe determinare dei risultati devastanti in virtù o a causa di un sistema politico diviso in quattro. Nella confusione di una Seconda Repubblica che ancora non si è incamminata verso la Terza, il patto tra centrosinistra e Scelta civica potrebbe insomma non essere sufficiente. Una prospettiva che non appare probabile. Ma sono emersi due elementi da questo punto di vista costituiscono delle vere e proprie incognite: il successo che sta riscuotendo il Movimento di Beppe Grillo e il calo di popolarità di tutti i centristi. Allora basta fare un po’ di conti per cogliere le possibili variabili: al netto dei senatori a vita, la maggioranza la Senato è fissata a quota 158. Secondo i tecnici parlamentari, però, la vera autosufficienza – anche nelle commissioni – si ottiene quando si supera soglia 167. La corsa alla pari tra centrodestra e
centrosinistra (e ora anche Grillo) in tre grandi regioni – Lombardia, Sicilia e Veneto – mette in pericolo l’autonomia di Bersani: se non vince in quelle tre circoscrizioni potrà contare su 143 o 146 senatori.
Se prevale solo in Lombardia può arrivare a 159. In questo quadro il sostegno dei montiani è sicuramente determinante. La condizione, però, è che sia capaci di abbattere lo sbarramento dell’8% ovunque. Se, ad esempio, Scelta civica si ritrovasse al di sotto nelle cosiddette “regioni rosse”, tutto si complicherebbe.
Poi c’è un altro dato che va considerato: cinque anni fa il centrodestra guidato da Berlusconi ottenne il 46,8%. Il centrosinistra con Veltroni il 37,5%. Questa volta difficilmente la coalizione vincente andrà oltre il 35%. E’ l’esito di una frammentazione amplificata dal Porcellum e già rimarcata dal presidente della Repubblica. In Francia i risultati sono stati analoghi: il Partito socialista di Hollande ha vinto le elezioni con il 28,6% , ma lì la compensazione è data dall’elezione diretta del presidente con il doppio turno. E’ quello che il professore D’Alimonte chiama «sistema disproporzionale».
In Italia, invece, la “vittoria in discesa” rischia di spiattellare in Parlamento una questione parlamentare della maggioranza ed uno di rappresentanza politica. Il probabile tsunami dei grillini farà emergere questi nodi soprattutto se l’ex comico andrà oltre il 15% e ancor di più se sfonderà il 20%. Ritrovarsi nelle aule di Camera e Senato circa 200 parlamentari che agiscono al di fuori di ogni profilo istituzionale può trasformare questa legislatura in una battaglia campale senza fine. Il segretario democratico ha quasi profeticamente parlato di «governo da combattimento ».
La situazione si acuirebbe se le formazioni “tradizionali” saranno penalizzate oltre previsto. Il Pd potrà opporre concretamente il suo risultato e legittimarsi come formazione-guida se riuscirà ad attestarsi decisamente sopra il 28-29%. Silvio Berlusconi se porterà tutto il suo polo ben oltre il 30%. Perderebbe circa un terzo degli elettori rispetto al 2008 ma manterrebbe la preferenza di un terzo degli italiani. In caso contrario la deflagrazione del Pdl e della Lega (in particolare se Maroni non conquisterà il Pirellone) sarà la prima conseguenza di questa consultazione. Stesso discorso per Monti. Il premier potrà vantare un successo se la sua Scelta civica infrangerà il muro del 14-15%, ma se scenderà sensibilmente sotto il 12% l’operazione politica si rivelerà una delusione. Considerando anche che per le coalizioni esiste a Montecitorio uno sbarramento del 10% al di sotto del quale non si elegge alcun deputato. Quella evenienza trasformerebbe la performance centrista in un disastro: scomparirebbe anche l’Udc di Casini. C’è poi chi come la Rivoluzione civile di Ingroia lotta per la sopravvivenza. Per loro la vittoria equivale a superare lo sbarramento del 4%.
Tutte incognite che verranno disvelate domani ad urne chiuse.
La Repubblica 24.02.13