Il ricco comico che riempie le piazze intimando ai politici di arrendersi è un ambiguo fenomeno che svela l’intensità della crisi. Leopardi scriveva che gli italiani ridono di tutto. Anche la tragedia più grave diventa per loro un motivo di beffarda ilarità.
In nessun altro Paese, dinanzi a una crisi così allarmante come quella in corso, irrompono sulla scena due comici (quali Grillo e Berlusconi) a contendersi con colpi di teatro i favori del popolo.
Se metà del corpo elettorale è catturata dai motti di spirito e dalle trovate propagandistiche dei due commedianti, è evidente che sono saltate le grandi reti di connessione culturale proprie di una moderna società civile. Fasce consistenti di popolo agiscono nella sfera pubblica in preda a fughe fantastiche, come se ogni rischio involutivo potesse essere esorcizzato con il fallace rimedio della risata. Al cospetto del pericolo mortale di una deflagrazione della stessa cornice statuale, una fetta ampia di società crede di sopravvivere chiudendo gli occhi dinanzi agli scenari da incubo che si aprono con il ritorno della destra al potere o con lo stallo in un regime di ingovernabilità.
Il comico seduce porzioni (non quelle più disagiate) di società che hanno scaraventato lontano dalla loro visuale ogni senso dello Stato e credono praticabili delle rigenerazioni magiche. Ridono del baratro. Lo spegnimento del sentimento civico, che fa di una nazione un corpo sociale coeso anche in tempi di crisi, rende possibile l’ubriacatura di massa per soluzioni apparenti, per slogan effimeri di cui non si sa cogliere in tempo la carica di manipolazione. Cosa c’è di più semplice in Italia che maledire lo Stato, l’amministrazione, il parlamento, le agenzie del fisco?
La forte carica antistatuale e gli umori antifiscali che accompagnano il comico rendono però del tutto vana ogni attesa in un recupero di efficienza e rendimento della sfera pubblica. Anche la domanda più insistita che nelle piazze di Grillo traspare, quella di un più raffinato civismo e di una maggiore partecipazione, stride con la reiterazione di un modello di partito personale che porta alle estreme conseguenze il principio di autorità: lo scettro del potere è confiscato e chiuso nelle mani sicure di un capo solitario.
All’ombra di un capo sciolto da vincoli programmatici, da organi di vigilanza e deliberazione, da regole incisive, da procedure predefinite possono lievitare solo arbitrio, passività, cooptazione, adulazione. Arduo che possa scaturire da ciò un nuovo modello di democrazia. Se poi al capo urlante, cui è consentito dire ogni cosa, corrispondono solo dei rappresentanti muti e senza volto, è difficile spacciare questa anomalia come una riforma della politica. Non è certo con delle schiere di parlamentari senza qualità, nel senso almeno che il candidato è sottratto al confronto pubblico dal quale apprezzare virtù e opinioni caratterizzanti, che si può contribuire alla necessaria opera di innovazione.
È solo una cattiva leggenda metropolitana quella di credere che l’inesperienza dei senza volto nelle istituzioni parlamentari costituisca un valore che ripaga in termini di controllo, trasparenza, ricambio. Non è vero che per inaugurare un evento di immediata rigenerazione etico-politica occorra attingere all’incompetenza e farla valere nello specifico lavoro politico-istituzionale come un rigenerante all’insegna della freschezza e spontaneità.
Soprattutto entro condizioni di crisi che scalfiscono la tenuta della statualità, e minacciano aspre soluzioni commissariali di ascendenza europea alle fughe stravaganti nel condominio berluscogrillino ad arte preparato dai media, occorrono classi politiche più rigorose. Non porta lontano l’elogio dell’incompetenza santificata come valore. Dietro ai due ricchi comici che se la ridono, esiste una società reale in disagio che solo dalla riscoperta della autorevolezza della politica può ricevere lo spiraglio di una ripresa possibile.
La promessa di una salvezza istantanea e assoluta, che transita attraverso lo scioglimento dei partiti e la chiusura dei sindacati o il ritorno alla lira, sa di stantio. La rabbia contro lo stato di cose esistente è un sentimento molto diffuso, se il risentimento non si traduce però in una capacità di innovazione politica rischia di far saltare tutto. Domenica, oltre la disfida dei due speculari comici che corrono a rimorchio di effetti speciali, è in gioco proprio questo: l’Italia come Stato non residuale, periferico, ridicolo.
L’Unità 23.02.13