È bene che l’Europa e il mondo entrino in questa campagna elettorale. Che si parli di Merkel, di Hollande, di Obama. Che ci si confronti con loro come con le valutazioni dei fondi di investimento asiatici, con le sentenze della Corte di Strasburgo, con i giudizi dell’Europarlamento. E’bene che tutto ciò concorra a formare l’opinione dei cittadini-sovrani, anche se talvolta fingono stupore o gridano all’ingerenza persino certe élite che conoscono i danni del provincialismo ma lo coltivano pensando di sfruttarne ancora i vantaggi. La sovranità non è più una questione esclusivamente nazionale. L’interdipendenza economica, politica, commerciale è una dimensione della nostra civiltà, perché è la condizione di un benessere (oltre che, ovviamente, di limitazioni) a cui non intendiamo rinunciare. È la condizione del nostro modello sociale.
L’Italia ha bisogno di un’Europa diversa. Ma ha bisogno dell’Europa. E così l’Europa ha bisogno di un’Italia che torni ad essere un fattore propulsivo e non una zavorra, come è stata negli anni di Berlusconi. Alla prossime elezioni è questa la vera, decisiva posta in gioco. Mai come questa volta si percepisce l’interesse diretto delle cancellerie europee: attendono l’esito delle urne con il fiato sospeso. Quelle del 24 e 25 febbraio saranno elezioni «europee», come lo sono state le presidenziali francesi del maggio scorso, e come lo saranno le politiche tedesche del settembre prossimo. Si decide se, dopo la più lunga crisi economica e finanziaria dal dopoguerra, ci sarà ancora un futuro per l’Europa oppure no. Si decide se il processo di integrazione avrà un nuovo impulso almeno nell’Eurozona, oppure se la moneta unica dovrà arrendersi proprio nel momento in cui produce il massimo di squilibrio interno tra i Paesi membri. Si decide se i Paesi fondatori riusciranno a concepire una nuova unità politica e fiscale prima del referendum britannico del 2017 sull’uscita dall’Unione europea.
Una quota importante di questa decisione sta alla sovranità degli italiani. Per questo le prossime elezioni sono le più importanti dopo quelle del ’48. Siamo a un bivio storico. E il domani non è affatto scontato. Quale strada imboccare è la risposta cruciale che l’Europa e il mondo attende da noi – e in realtà riassume tutti gli altri argomenti della contesa politica, dal ricambio delle classi dirigenti alla necessaria svolta in termini di moralità e legalità, dalla priorità programmatica della questione lavoro ad una nuova idea di sviluppo fondata sull’equità sociale. La vittoria socialista in Francia ha impresso una prima correzione alla linea di austerità europea: non sufficiente, ma senza di essa non avrebbe trovato spazio neppure la nuova politica monetaria di Draghi. Ora tocca all’Italia spingere di nuovo per gli investimenti, il lavoro, la crescita. Per uscire dalla spirale delle politiche recessive. E se la Germania dovesse chiedere in cambio un maggiore impegno di integrazione nelle politiche economiche, il governo italiano di centrosinistra potrebbe diventare il più utile mediatore tra Parigi e Berlino. Ma la drammaticità di questo passaggio italiano sta nel fatto che c’è un solo attore possibile, in grado di svolgere questa funzione. È per questo che tutti i governi, anche quelli di centrodestra, si augurano che lunedì sera sia Bersani il vincitore e che abbia i numeri per costruire un governo forte, capace di tenere gli impegni nel tempo. È lo stesso auspicio di Washington, anche se Obama come la Merkel non nascondono il desiderio di vedere ancora Monti nel gruppo di testa italiano, accanto a Bersani. Purtroppo, la non felice campagna elettorale del Centro ha indebolito l’attuale premier. E oggi le vere alternative alla vittoria del centrosinistra sono Berlusconi e Grillo: chiunque dei due vincesse, è evidente che la prospettiva europea sarebbe travolta. Magari qualche economista, con velleità rivoluzionarie e ricchi conti in banca, si divertirà a discettare sui vantaggi competitivi di una nostra uscita dall’euro, o di una fine tout court della moneta unica. Ma il contraccolpo in termini di impoverimento del Paese, di disoccupazione, di famiglie ridotte alla fame sarebbe pesantissimo: e non più rimontabile nel medio periodo il destino di un’Italia relegata in serie B o C. Senza Europa potrebbe non tenere più neppure l’unità d’Italia. Questo ci giochiamo. Questa è la scelta nelle mani degli elettori. Ci sono momenti in cui la storia può cambiare percorso. Noi vogliamo un’Europa del lavoro. Anzi, pensiamo che solo l’Europa del lavoro può sopravvivere ai populismi dei Grillo e dei Berlusconi. Ci rifletta bene anche quella sinistra radicale che, con spensierato avventurismo, ha deciso di costruirsi una rendita di posizione tra la sinistra di governo e il movimento di Grillo. Il drammatico risultato è che a Grillo non fa alcun argine, ma intanto rischia di dare una mano a Berlusconi.
l’Unità 22.02.13