La proposta avanzata da Bersani sulla formazione, in uno dei pochi paesi europai in cui ancora manca una legge per la formazione permanente, ricalca le linee dell’ «Accord interprofessionnel pour un nouveau modele economique et social au service de la competitivite des enterprises et de la securisation de l’emploi et des percours professionales des salaries», siglato a gennaio in Francia, quasi contemporaneamente all’Accordo di produttività siglato in Italia da tutte le organizzazioni, Cgil esclusa. L’Accord affronta molti «scogli» posti da una riorganizzazione dell’impresa e predispone gli strumenti perché le misure aziendali non riducano disponibilità a collaborare e diritti del lavoro. Si chiede la disponibilità ai cambiamenti ma non si riducono i diritti. L’arco degli impegni richiesti dall’Accord è ampio, dalla mobilità professionale e geografica agli orari flessibili sino al part time, dalla formazione (tra l’altro garantita da un nuovo strumento, il Compte personnel de formation) sino alle esigenze di orari diversi come il «travail intermittent», oltre la riconferma della flessibilità di orari introdotta con la legge delle 35 ore, l’Annualisation des oraires, molto apprezzata dagli imprenditori.
Le innovazioni previste nell’ Accord sono molte, sino a quella più radicale, la «cogestione» alla tedesca obbligatoria per tutte le grandi imprese, con uno o due lavoratori nei consigli d’amministrazione delle aziende con più di 5000 dipendenti.
Centrale nell’Accord è il capitolo dei diritti d’informazione e di formazione. Si riconosce che se si vuole il consenso pieno dei lavoratori alle misure di riorganizzazione, è necessario che essi abbiano tutte le informazioni necessarie per comprendere appieno tattica e strategia aziendale. Le esigenze di formazione permanente sono il centro dell’Accord e ad esse sono dedicati molti dei 28 articoli, sino alla creazione di un conto personale di formazione, «compte personnel de formation» dalle seguenti caratteristiche:
1) il conto è universale: tutti i dipendenti dall’entrata sul mercato del lavoro sino al pensionamento;
2) il conto è individuale: ogni persona ne beneficia, sia esso un dipendente o in cerca di lavoro;
3) il conto è trasferibile; può essere «portato» dal lavoratore da un posto di lavoro all’altro;
4) i diritti alla formazione sono di 20 ore/anno ed il conto è plafonato a 120 ore.
5) il finanziamento del conto è a carico di Stato e Regioni.
Nell’Accord si parla di «arbitraggio tra orario, salario ed occupazione» senza derogare a tutti i diritti fondamentali, come lo Smic (salario minimo garantito), l’orario legale di 35 ore, durata massima di orario, riposi e ferie. A differenza dell’Accordo italiano dove sono previste rinunce, come l’adeguamento all’inflazione dei contratti nazionali e deroghe anche peggiorative, come quelle su mansioni, orari e salari.
L’Accord francese per la competitività è un grande esempio di via concreta a questi obiettivi perché riconosce che la formazione permanente del lavoratore è misura senza alternative valide, come la mortificazione del lavoratore, sia con bassi salari che con minori diritti, via purtroppo seguita spesso in questi anni in Italia da governi ed imprenditori miopi. L’Accord francese è centrato su tre pilastri innovativi, il diritto alla formazione continua del lavoratore, il diritto all’informazione su tutti i cambiamenti organizzativi che l’azienda ha in animo di fare, la cogestione alla tedesca per le grandi imprese, con i lavoratori nei consigli d’amministrazione.
Sono distanze abissali con l’Accordo italiano sulla produttività, dove si chiedono ai lavoratori ampie disponibilità ai cambiamenti, ma non si escludono possibili riduzioni dei diritti per salari, orari, mansioni e non si danno contropartite che non quella della parziale defiscalizzazione degli aumenti aziendali da produttività (Irpef al 10 per cento sui premi di produttività per paghe inferiori a 40mila euro). La via italiana non appare proprio la più appropriata per realizzare l’obiettivo strategico della produttività ed è anche sintomo di un ritardo culturale dei nostri imprenditori, spesso tesi a comprimere diritti del lavoro, inconsapevoli anche dei danni alla produttività che tali atteggiamenti comportano.
L’Unità 21.02.13