Continua lo stillicidio di provvedimenti (o di annunci di provvedimenti) su questo o quell’aspetto del funzionamento delle scuole e delle università. Di volta in volta si tratta – sono solo alcuni esempi del calendario scolastico, della scelta dei libri di testo o delle prove di ammissione ai corsi di laurea. Si procede all’insegna della casualità, senza tener conto che in attività complesse, come sono quelle educative, non si possono modificare alcuni aspetti senza produrre mutamenti anche negli altri. A dispetto del gran parlare che si fa dell’educazione scolastica come di un sistema, tutto si può dire dell’azione di governo tranne che sia sostenuta da interpretazioni di sistema. L’effetto è una crescente incertezza fra gli insegnanti e gli allievi, che vedono cambiare le condizioni del loro impegno senza che sia possibile individuare un disegno d’insieme. E non potrebbe essere altrimenti, se solo si considerasse che da troppo tempo alla base degli interventi di politica scolastica non c’è l’intento di sviluppare l’educazione adeguandola al mutare della domanda sociale, ma solo quello di fornire un livello minimo di servizio che realizzi il massimo beneficio col minor impegno di risorse. Sarà bene essere chiari. Adeguare l’educazione alla nuova domanda sociale non significa necessariamente abbracciare qualunque proposta incontri un diffuso consenso, senza chiedersi se tale consenso sia il risultato della generale consapevolezza della necessità di conferire certe caratteristiche al profilo degli allievi (un tempo solo bambini, ragazzi, giovani, ma ora, e sempre più, anche adulti), oppure se non si tratti di una convergenza frutto di un senso comune prevalentemente condizionato da logiche di utilità a breve termine (e non è questa l’ipotesi peggiore) o da condizionamenti operati attraverso gli apparati della comunicazione sociale. Un nuovo senso comune è quello che vorrebbe ottenere una migliore qualità dell’educazione riducendo le risorse a disposizione delle scuole. Se nel caso dell’adeguamento alla domanda c’è, anche se in modo parziale e deviato, una qualche attenzione all’evoluzione dei quadri d’intervento, quando si pretende di mettere sullo stesso piano la riduzione della spesa e il miglioramento della qualità ci si limita a esibire un’ideologia gradita a chi propugna tale riduzione in sede di decisione politica. Da troppo tempo ci siamo abituati ad affermazioni che non meriterebbero alcuna attenzione se non fossero riprese e riproposte in sede politica. Basti pensare alla disinvoltura con la quale si sostiene (ci sono forze politiche che hanno ritenuto di farne un punto qualificante della loro proposta programmatica in vista delle elezioni) l’esigenza di affermare criteri meritocratici nella valutazione degli allievi, degli insegnanti e delle scuole. Sembra non ci si renda conto del ridicolo di ricorrere ad una parola (meritocrazia) che deve la sua fortuna ad un’opera di fantasociologia (mi riferisco a un libro di Michael Young pubblicato oltre cinquant’anni fa, nel quale la parola designava uno scenario da incubo, una sorta di utopia negativa, nella quale gli individui sono apprezzati in relazione al loro quoziente intellettivo e allo sforzo che pongono nel realizzare ciò in cui sono impegnati). Ma, soprattutto, si mostra di non capire quanto siano vari i fattori che concorrono a determinare gli effetti dell’educazione, e come tali effetti non siano da considerarsi realizzati una volta per tutte, ma costituiscano solo l’approssimazione raggiunta in un momento determinato, modificabile in momenti successivi. La politiche di contenimento della spesa per l’educazione, pur imbellettate con esibizioni ideologiche dalle quali si dovrebbe rifuggire se appena le si conoscesse, sono rivelatrici della mancanza di una cultura dell’educazione. Non si capisce, del resto, come potrebbe affermarsi una cultura dell’educazione in assenza di interventi volti a promuovere la ricerca e a sostenere la conoscenza educativa, ai diversi livelli e nei diversi modi in cui è necessario che cresca la consapevolezza dei problemi. C’è bisogno di una ricerca istituzionale, di approfondimenti su tematiche specifiche, di riflessione sulla sapienza che gli insegnanti accumulano cercando soluzione per le tante difficoltà che incontrano nel loro lavoro quotidiano. Riversare sulle scuole provvedimenti abborracciati e scoordinati fra loro è proprio ciò che dovrebbe essere evitato. L’innovazione di cui c’è bisogno non può che derivare dall’affermazione di una nuova politica per la scuola, nella quale non ci sia posto per la distribuzione di perline colorate. Occorre pensare a un progetto di ampio respiro, che sostenga il lungo corso della vita che attende i nostri bambini e i nostri ragazzi. Quelli che al momento sono gli oggetti del desiderio, così come le trovate per razionalizzare questa o quella pratica nell’attività delle scuole, non possono che veder cadere la loro capacità di attrazione in tempi sempre più brevi, perché soggetti da un lato allo sviluppo della tecnologia e, dall’altro, alla pressione del mercato.
L’Unità 20.02.13