Alla vigilia di un’elezione politica, la vendita di qualsiasi giornale – anche regionale o di provincia – susciterebbe sospetti e polemiche.
Figuriamoci quella di una rete tv come La 7 che aspira a rappresentare un “terzo polo” fra due colossi come la Rai e Mediaset. E oggettivamente non c’è dubbio che di una procedura accelerata si tratti, nella logica frettolosa del fatto compiuto che ha distorto nel corso degli anni il mercato televisivo italiano.
Basterebbe già questa coincidenza temporale per avanzare legittime riserve sulla decisione con cui il Cda di Telecom ha dato il via libera a una “trattativa in esclusiva” con l’editore Urbano Cairo. Quasi che si volesse precostituire uno stato di fatto irreversibile, in vista di una prospettiva o di una svolta politica sfavorevole. Concludere l’affare, insomma, prima che possa arrivare qualcuno a cambiare le regole.
Eppure, è proprio questo ciò che occorre in primo luogo. Cambiare le regole di un sistema squilibrato, ancora dominato in gran parte del duopolio Raiset, per adottare finalmente una riforma anti-trust: contro la concentrazione televisiva e pubblicitaria che ha danneggiato il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza. E dunque, aprire a nuovi soggetti, nuovi mezzi, nuove iniziative e nuove idee.
Altro è la necessità di regolamentare il conflitto di interessi: cioè la commistione tra affari privati e incarichi pubblici, fra il business e il mandato parlamentare o di governo. Non solo nel campo televisivo. Ma tanto più necessaria in un settore nevralgico della vita democratica, dove diventa assolutamente intollerabile la sovrapposizione tra il ruolo politico e lo “status” di concessionario
pubblico, titolare di un contratto d’affitto con lo Stato e quindi in pratica controparte di se stesso.
Sono concetti che andiamo ripetendo da anni. Un conto è la concentrazione televisiva e un conto è il conflitto di interessi. Per una malvagità della storia, nel nostro disgraziato Paese le due questioni s’incarnano nell’inquietante figura di Silvio Berlusconi. Ma restano diverse e distinte, anche se molti non vogliono o fingono di non capirlo, confondendo i due obiettivi per trincerarsi nel baluardo del conflitto di interessi.
Ora è indubbio che Cairo – per quanto dica di aver rotto con il Cavaliere nel ’95, come s’è affrettato a precisare lui stesso – proviene da quella medesima “scuola di pensiero”. È stato il suo assistente, s’è formato a Publitalia. E ha applicato il “modello berlusconiano” perfino nel calcio, rilevando il vecchio e glorioso Torino. Un “follower”, insomma, come si direbbe nel gergo degli internauti.
È pur vero che nel frattempo è cresciuto. S’è messo in proprio, è diventato anche editore e possiede una batteria di periodici che macinano pagine patinate e pubblicità. Per cui bisogna metterlo e aspettarlo alla prova dei fatti, verificando sul campo se La 7 manterrà l’identità di tv indipendente che è riuscita a costruirsi oppure se si trasformerà nella quarta rete Mediaset. Un’emittente collaterale, fiancheggiatrice, vassalla.
Per il momento, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, possiamo anche dire: mezzo pericolo scampato. Sarebbe stato molto più grave, infatti, se Telecom avesse accettato la “proposta indecente” presentata dal Fondo Clessidra che fa capo a un altro berlusconiano doc come Claudio Sposito, ex amministratore di Fininvest.
Non tanto per una questione di persone, per carità. Quanto per il fatto che l’azienda guidata da Franco Bernabè avrebbe svenduto, insieme alla televisione, anche i tre “multiplex” che comprendono le frequenze televisive ottenute in concessione dallo Stato per vent’anni. Quelle, ricordiamolo en passant, sono un bene pubblico che appartiene a tutti i cittadini. Ma in forza della distinzione fra operatori di rete e fornitori di contenuti a La 7 basterà affittare da Telecom un solo “mux” per trasmettere tutto quello che vuole.
Adesso è necessario, come ha detto ieri Pierluigi Bersani, disciplinare le posizioni dominanti, dirette o indirette. E perciò il leader del centrosinistra s’è attirato da Berlusconi l’accusa di lanciare “minacce mafiose”, quasi che le regole – a cominciare proprio dall’anti-trust – non rientrassero nella logica del capitalismo di mercato e della democrazia economica. Soltanto così, invece, si può favorire la formazione di un “terzo polo” televisivo, rafforzando nel contempo l’intero sistema dell’informazione a vantaggio di tutti i media, vecchi e nuovi.
La televisione è stata, insieme alla giustizia, la vera posta in palio nell’infausto ventennio berlusconiano. E ancor più, lo è stata la ricca torta della pubblicità televisiva. Ecco la “mission” del partito- azienda, il suo codice genetico. Fra pochi giorni, avremo l’opportunità di chiudere con il voto quella lunga stagione di abusi e di malversazioni.
La Repubblica