Spero che dal voto venga fuori una netta affermazione del Pd e della coalizione di centro-sinistra così da assicurargli la responsabilità di governo». Romano Prodi, 73 anni, è appena tornato nella sua Bologna dopo un tour de force di una settimana che lo ha portato in Senegal, Burkina Faso, Mauritania e Niger. Ogni giorno incontri con capi di stato, primi ministri, politici e società civile. Da quando, l’ottobre scorso, è stato nominato inviato speciale dell’Onu per il Mali e il Sahel, continua a girare come una trottola. Anche per superare l’emergenza in Mali, Prodi vuole lanciare un Fondo internazionale di aiuti per lo sviluppo del Sahel, la lunga fascia di sabbia che attraversa l’Africa, dalla Mauritania alla Somalia, area tra le più povere e instabili al mondo. «E una umanità dolente. Per questo bisogna girare il mondo a chiedere la carità». In queste settimane non è mai voluto entrare in quello che ha definito il “chiacchiericcio” della politica italiana. Ma stanco come molti italiani – di ascoltare promesse che hanno preso a volare come gli asini ha deciso di rompere il suo silenzio con questa intervista al Sole 24 Ore.
Professore, come giudica questa campagna elettorale?
In conseguenza dei fuochi d’artificio di Berlusconi, la campagna elettorale è precipitata in una fase di promesse incredibili alle quali non potrà essere dato alcun seguito concreto.
Rispetto alle ultime elezioni c’è qualcosa di diverso?
La dose di aggressività e di vaghezza delle proposte attuali è superiore a quella delle elezioni precedenti.
Tuttavia la campagna di Berlusconi sembra stia dando i suoi frutti stando agli ultimi sondaggi…
Berlusconi ha posto sul tavolo mirabolanti e irrealistiche promesse di vantaggi a breve. Pure questa volta le sue promesse, pur esercitando una forte presa sugli elettori, si trasformerebbero in tragedie dopo qualche mese.
Anche nelle elezioni politiche del 2006 aveva usato la molla del taglio dell’Ici per attirare gli indecisi.
Il gioco è sempre lo stesso. Ripropone una misura fiscale – l’abolizione dell’imposta sugli immobili – che anche se nel 2006 non fu sufficiente a dargli la vittoria, gli fece guadagnare oltre cinque punti nell’ultima settimana. Questa volta, dato che il divario da recuperare è ancora maggiore, ha rincarato la dose promettendo non solo l’abolizione dell’Imu ma anche la restituzione dì quanto pagato in precedenza.
È possibile realisticamente adottare simili misure?
Come sette anni fa, Berlusconi sa benissimo che l’Imu (Imposta municipale unica) è necessaria. I Comuni con questi soldi pagano la mensa dei bambini, lo scuola-bus, la pulizia delle strade. Insomma, finanziano le attività ordinarie dei servizi pubblici più vicini al cittadino. L’Imu – anche se doverosamente rimodulata, com’era nel mio governo – dovrebbe entrare totalmente nelle casse dei Comuni.
Lei pensa che gli italiani crederanno a Berlusconi?
I vantaggi a breve, ancorché necessariamente seguiti da conseguenze disastrose, sono molto attraenti per gli elettori, tentati dal preferire l’uovo di oggi alla gallina di domani. E questa volta è ancora più grave perché gli italiani sanno benissimo che il pollaio oggi è vuoto. Il Paese è esausto, con una progressiva, paurosa, caduta di reddito, di investimenti, consumi e occupazione. In questo momento l’Italia ha bisogno di altro. Di fatti, programmi, cose concrete. Non si può infatti negare che la sofferenza sia altissima e che sia ulteriormente aumentata nell’ultimo anno. Il declino degli anni precedenti è continuato, portando i numeri della nostra economia indietro di venti anni.
Vuole dire che anche la cura di rigore del professor Monti non ha dato gli effetti sperati?
Riflettendo su quanto è avvenuto lo scorso anno dobbiamo distinguere due fasi. La prima, in cui la necessità di riprendere velocemente la credibilità perduta con il governo Berlusconi era prioritaria rispetto a ogni altro obiettivo. Il giorno in cui cadde il mio governo entrò nella mia stanza Tommaso Padoa-Schioppa. Ricordo ancora che disse: «Sai quanto è oggi lo spread? È a 34, un sogno per l’Italia». Con Berlusconi al governo lo spread tra BTp e Bund è arrivato fino a 575 e, conseguentemente, gli interessi sul debito schizzati sopra al 7%. Come si fa a sostenere che lo spread non conta nulla? In quella situazione, era assolutamente prioritario imporre una politica di drastico aggiustamento dei conti. Monti ha fatto un lavoro eccellente per salvare l’Italia dal fallimento. Non è bastato.
È mancata la fase due, pare di capire.
A partire dall’estate la politica del governo tecnico avrebbe dovuto essere accompagnata da una politica di rilancio, dato che diveniva chiaramente inutile bloccare la crescita del deficit se continuava a calare fortemente il Prodotto interno lordo. Ne scrissi in luglio anche perché proprio in quel periodo cominciavano a uscire i risultati di accurate ricerche internazionali che dimostravano che un prolungato avvitamento verso il basso del Pil rendeva impossibile il risanamento del debito pubblico, qualsiasi fosse stato il livello di austerità applicato.
In questo scenario ci si sarebbe aspettati una campagna elettorale incentrata sui temi dell’economia reale. Nessuno parla della competitività.
È da sempre la mia grande preoccupazione. Partendo da questa situazione si doveva aprire una campagna elettorale attenta ai temi dello sviluppo e del lavoro in un quadro controllato delle spese che, almeno in buona parte, aveva già tranquillizzato i partner europei. Ricordiamo che quando si parla di lavoro non si può parlare solo di leggi sul lavoro ma di sviluppo per creare occupazione.
E invece è partita la gara a chi la spara più grossa?
È triste ammetterlo ma è partita una campagna che, ignorando strategie e impegni precedenti, si è interamente concentrata su impossibili riduzioni di imposte. La gara fra un rigorista a oltranza e un consumato scialacquatore non può non vedere quest’ultimo fortemente avvantaggiato. Nessuno dei due vincerà il campionato. Intanto però i mercati internazionali sono di nuovo entrati in fibrillazione. E i mercati hanno purtroppo una memoria più lunga di quella degli elettori. L’Italia non può permettersi un nuovo periodo di instabilità. Credo tuttavia che il centrosinistra sia in grado di impostare una strategia di sviluppo di lungo periodo pur tenendo i conti in ordine.
Insomma ci vorrebbe un Prodi-tris?
Non scherziamo. Bersani sarà un ottimo primo ministro, nel solco tracciato dai precedenti governi di centro-sinistra. In passato avevo battezzato questa politica come la “politica della formica”, che deve lavorare con pazienza, riorganizzando la pubblica amministrazione per contenerne le spese e aumentarne l’efficienza, ma investendo nello stesso tempo nelle risorse umane, dalla scuola alla ricerca, in una politica industriale vera, assente ora nel Paese.
Ripartiamo dalla politica industriale. Mi spieghi meglio la sua visione…
Non è solo mia. Ne parla Squinzi un giorno sì e un giorno sì. Ne parlano le forze sociali. Il presidente Napolitano in più occasioni, negli ultimi anni, ha insistito con forza sulla necessità di investire in ricerca e sviluppo. Parole inascoltate. Solo con un’innovazione applicata in tutti i campi in cui abbiamo ancora possibili vantaggi possiamo salvarci. Vi è ancora spazio per le “specialità italiane” nel mondo globalizzato ma queste specialità debbono essere mantenute e valorizzate da una incessante tensione a innovare.
Ha in mente qualche modello in particolare a cui ispirarsi: la Silicon Valley californiana, la Germania, la Cina…
Da tutte le storie di successo c’è qualcosa da imparare. Noi abbiamo ottime mani, ottimi cervelli. Dobbiamo ritrovare solo un po’ di orgoglio. Il sistema deve sostenere chi cerca di fare e di fare bene. Non ostacolarlo. Tanti sono gli esempi a cui far riferimento. La Corea del Sud si avvicina molto all’Italia per dimensione e, come noi, non possiede materie prime. Ebbene, investendo ogni anno più del 3% del Pil in ricerca e sviluppo, è ora prima al mondo in 7 tra i grandi settori produttivi. Pensate che i tre colossi Samsung, Lg e Hyundai ogni anno investono dall’8 al io% del fatturato in R&D. Il problema principale, anche per far ripartire il lavoro, è la produzione. E lì la chiave di tutto. In Italia manca da tempo una politica industriale credibile. Di questo ha bisogno il Paese. Di questo hanno bisogno le imprese e i lavoratori. È una strategia faticosa e a lungo termine, proprio l’opposto di quanto emerge dalla maggior parte delle tuonanti dichiarazioni di questa campagna elettorale.
Lei è l’unico che è riuscito a battere Berlusconi due volte. Gli italiani le hanno dato credito ma i suoi governi non hanno tenuto. Non è riuscito a portare a termine il suo lavoro. Chi assicura che non succederà ancora?
Mi auguro per l’Italia che le forze riformiste riescano dopo le elezioni a stringere attorno al Pd un patto di ferro che duri una legislatura. L’unità della coalizione è la priorità delle priorità. Come per un marinaio che naviga in mare aperto, in un mare in tempesta come è quello attuale, l’unità è la stella polare che deve guidare il cammino del governo. L’interesse del Paese deve prevalere. Io sono ottimista. Vendola non è Bertinotti: ha un forte senso delle istituzioni e in Puglia ha ben governato. Posso però dirle ancora una cosa?
Dica…
Volevo ricordare a proposito di chi afferma che il centro-sinistra non è una forza di governo ma il partito della spesa, che non è affatto così. Questo è dimostrato dai numeri dei due esecutivi dei quali ho avuto la responsabilità. In entrambi i governi la quota del debito pubblico è diminuita di oltre dieci punti senza rallentare il trend di crescita.
Quali sono questi numeri?
Alla conclusione del mio ultimo governo, a maggio 2008, il rapporto deficit/Pil era al 2,6%, il debito pubblico era di 1.654 miliardi di euro, il rapporto debito/Pil a 106,1. Il 16 novembre 2011- quando Berlusconi ha lasciato il governo – il rapporto deficit/Pil era salito al 3,8%, il debito pubblico a 1.912 miliardi – ben 258 miliardi di euro in più in soli tre anni. Ora esso ruota attorno ai
2mila miliardi, con il rapporto debito/Pil salito al 120,7%. Gli italiani avranno anche la memoria corta ma i dati restano questi.
Nel merito, che cosa ha fatto il suo governo per le famiglie e le imprese?
Le nostre parole-guida erano tre: equità, sviluppo, risanamento. Dopo pochi mesi di governo abbiamo introdotto gli sgravi Ici sulla prima casa per le classi medie, lasciando la tassa intera solo alle case di lusso. Abbiamo aumentato le pensioni basse. Rilanciato i programmi di edilizia sovvenzionata. Introdotto la completa portabilità dei mutui, la liberalizzazione in diversi settori dell’economia, abbiamo introdotto la class action, le azioni collettive risarcitorie a favore dei cittadini. Introdotto i bonus per gli incipienti, le misure fiscali per le donne lavoratrici, il piano-nidi e i bonus per le famiglie numerose.
E per le imprese?
La Finanziaria 2008 prevedeva che l’extragettito della lotta all’evasione, io miliardi di euro, venisse utilizzato per ridurre le imposte alle imprese e la pressione fiscale sul lavoro dipendente. Il tutto cercando di costruire un delicato equilibrio fra le imposte e le spese. Una politica faticosa, poco “sexy” a livello mediatico ma che, se fosse proseguita, avrebbe visto l’Italia oggi con un rapporto debito-Pil al di sotto della media europea e con un livello di reddito procapite di certo superiore a quello attuale.
Il contesto internazionale è molto cambiato dopo la crisi dei mutui Usa e quella dei debiti sovrani. Comunque vada, chi oggi è chiamato ad assumere una responsabilità di governo si trova a operare in un quadro molto complesso.
Non siamo solo noi italiani i responsabili del triste stato delle cose. Non dobbiamo mai dimenticare il ruolo funesto giocato dalla finanza internazionale (soprattutto americana) e dalla dottrina economica che ha dominato dal1980 in poi, producendo in tutto il mondo un progressivo aumento delle disuguaglianze.
Gli americani continuano a sostenere la loro economia con il debito, con politiche espansive. Noi europei siamo obbligati dalle regole del pareggio di bilancio.
Cosa vuole che le dica…Ci troviamo di fronte a un’Europa guidata dalla Germania che impone una politica recessiva anche in presenza di crescita zero, di un enorme attivo della sua bilancia commerciale e di una totale assenza di un qualsiasi pericolo di inflazione.
Ci vorrebbe più Europa e meno Germania. L’accordo al ribasso appena raggiunto a Bruxelles sul bilancio europeo 2014-2020 sembra andare in un’altra direzione.
Ha vinto Cameron. Vincono gli euroegoismi. Non è una cosa buona. La riduzione del bilancio europeo messa in atto nei giorni scorsi contiene un messaggio preciso: ogni Paese dell’Ue deve solo curare i propri interessi. Ogni euro speso per lo sviluppo o la solidarietà europea è semplicemente buttato via.
Verrebbe da dire che manca un autentico spirito europeista. I padri fondatori, che avevano vissuto il dramma della Guerra, avevano il coraggio di guardare lontano senza badare al consenso o agli interessi di bottega.
Mi duole ammetterlo ma da allora l’Europa non è andata molto avanti. Sappiamo che il futuro del nostro Paese è strettamente legato all’Europa. Sappiamo che l’Unione europea non si dissolverà ma, anzi, proseguirà nel cammino della propria costruzione. Ma fino a quando non emergerà una vera leadership europea, nessun Paese, Italia compresa, potrà trovare un sostegno sostanziale da parte dei suoi partner.
Che ruolo può avere l’Italia in questo scenario di euro-egoismi, come lei lo definisce?
Per rilanciare l’Europa e avere un ruolo decisivo in questo processo, l’Italia deve riprendere per i prossimi anni un lungo cammino da “formichina”, una ” formichina ” capace però di preparare il futuro. La strada è chiara. Non è facile spiegare tutto ciò in campagna elettorale ma è necessario fare capire agli italiani che questa è l’unica via d’uscita.
Il Sole 24 Ore 17.02.13