L’impressionante serie di arresti, di inchieste giudiziarie, di accuse gravissime rivolte a uomini politici che hanno avuto responsabilità di governo importanti, di aziende di valore strategico per il Paese colpite da sospetti e da discredito, rende ancor più cupo lo scenario di macerie in cui si svolge questa campagna elettorale. Non era un’iperbole, e neppure uno slogan, dare il nome di «ricostruzione» all’impresa politica che ci sta di fronte. Serve davvero un’opera di ricostruzione, come fu quella del dopoguerra.
E serve una partecipazione collettiva, una grande capacità di inclusione attorno a un progetto, ad una rigenerazione del senso delle istituzioni, e anche del senso del limite.
La corruzione è uno dei grandi mali italiani. Forse il più grande. È una questione morale, ma ormai anche una gigantesca zavorra per la società, per l’economia, per la nostra stessa possibilità di sviluppo. La legalità è la condizione per tornare a creare lavoro, per attirare investimenti esteri, per riattivare il circuito democratico e la mobilità sociale, per restituire ai giovani quella speranza di futuro di cui sono stati derubati. Per questo le parole di Berlusconi, anche quelle pronunciate ieri sulle tangenti, sono un danno per l’Italia. Come lo sono stati i suoi fallimentari governi nell’arco degli ultimi dieci anni. Non perde occasione il Cavaliere di strizzare l’occhio all’Italia delle illegalità: il condono, le tasse che forse si possono evadere, le tangen- ti. Le sue affermazioni lisciano il pelo a una parte del Paese, indicano scorciatoie illusorie a chi soffre le conseguenze sociali della crisi, talvolta contengono anche pezzi di verità, pur annegati in una filosofia che spinge l’Italia sempre più a fondo. Tutto il contrario del riscatto e della risalita. Del resto, l’obiettivo elettorale di Berlusconi è l’instabilità, non la ricostruzione morale e civile. Eppure, senza di questa, non ci sarà alcuna ripresa. E non ci sarà qualcuno che si salverà da solo dalle macerie nazionali.
La politica è chiamata compiere il primo passo. È vero che la lunga crisi, unita all’incapacità di riformare le istituzioni, ha prodotto paralisi e squilibrio tra i poteri. È vero che la crescita enorme dei «poteri neutri» – dalla magistratura alle authority, dalla giurisprudenza delle Corti costituzionali alla legislazione europea – sta ponendo problemi di sovranità, e dunque di democrazia. Ma tocca alla politica – anzi, ad una nuova guida politica – ridefinire con rigore il paradigma di un comportamento del potere pubblico degno di questo nome, e della fiducia dei cittadini. Questa è la premessa per le riforme. Questa è la condizione di una nuova stagione, in cui si possa ristabilire il confine tra i poteri e la loro necessaria collaborazione. Si può dubitare sulla tempistica di alcune decisioni della magistratura in questi giorni, ma l’atteggiamento di sfida che il Pdl ha mantenuto in questi anni nei confronti dei giudici, il suo com- pleto disinteresse per ogni seria riforma della giustizia sacrificata agli interessi personali di Berlusconi, hanno aggrovigliato il nodo e aumentato i rischi per il Paese. In ogni caso la cultura garantista, che la sinistra deve sempre rivendicare come proprio patrimonio, si deve coniugare con il rispetto delle autonomie istituzionali e con la percezione del limite. Limite della politica, limite della legge, e questo punto anche limite dell’azione giudi- ziaria, nel senso che non sarà mai il diritto penale da solo a riscattare il bisogno di giustizia di una comunità.
Per questo serve una nuova stagione. Un governo di cambiamento. La moralità e la legalità devono occupare il primo punto dell’Agenda. Anche a costo di qualche rinuncia personale, che può apparire di per sé ingiusta. In un tempo di ricostruzione la classe dirigente deve mostrare più rigore di quanto non chieda ai cittadini. Non è in gioco soltanto l’onore della politica, o delle istituzioni. È in gioco la società, la nazione. In questi giorni drammatici, dove il rosario di arresti ricorda i giorni più terribili della fine della prima Repubblica, sono in gioco anche imprese e banche dalle quali dipendono posti di lavoro, quote di Pil, possibilità di sviluppo. Non possiamo farne a meno. Non possiamo fare a meno dell’acciaio, non possiamo permetterci il fallimento di una banca come MontePaschi, non possiamo permetterci che Finmeccanica entri in una black list internazionale, perché in quell’azienda c’è un enorme capitale di lavoro italiano, di qualità tecnologiche e di capacità innovative. Chi ha sbagliato deve pagare. Chi parteciperà alla leva della ricostruzione deve assumersi una nuova responsabilità.
A tanto valgono le elezioni del 24 e 25 febbraio. Non è vero che tutti i partiti sono uguali. È vero invece che l’Italia è davanti a un bivio e la possibilità di imboccare la strada della catastrofe non è del tutto scongiurata. Abbiamo bisogno di un cambiamento profondo. Che avvenga nella sicurezza europea: perché l’alternativa è l’emarginazione, il commissariamento, in altre parole la parabola greca. L’Europa è in crisi ma resta la nostra speranza. Un governo di cambiamento in Italia può dare una mano al cambiamento in Europa. Anche la moralità degli affari può trovare sostegno in Europa: i protocolli per l’intermediazione internazionale devono avere una rigorosa regolamentazione continentale, per evitare concorrenze sleali e rendere ancora più difficile il rientro di eventuali tangenti.
L’Unità 15.02.13