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"I peccati delle èlite", di Massimo Giannini

Quattro arresti in un giorno solo. Avvisi di garanzia a raffica, con capi d’imputazione che si moltiplicano. Scandali a pioggia, nelle ex partecipazioni statali e nella finanza privata. Come la Prima, anche la Seconda Repubblica muore sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. Mentre l’Italia si consuma nella recessione più lunga degli ultimi cinquant’anni, con 104 mila imprese chiuse in un solo anno e una caduta del Prodotto lordo che ci riporta ai livelli del 1993, i magistrati scoperchiano un pozzo nero di denaro e di fango nel quale la politica e l’economia sprofondano insieme. A una settimana dal voto, i cittadini- elettori si incamminano verso le urne tra le macerie di una nuova Tangentopoli. Non c’è più Craxi, che davanti al Parlamento pronuncia un’arringa disperata chiamando in causa tutti i partiti dell’arco costituzionale. Ma c’è Berlusconi, che di fronte al malaffare non denuncia la corruzione che tracima, ma i pm che la combattono.
C’È UN filo sottile, che tiene insieme i due cicli della storia. L’uomo di Arcore, come l’esule di Hammamet, ragiona con la stessa logica deterministica: quella del Far West e del “todos caballeros”. Rubano tutti, e dunque non ruba nessuno. Le mazzette si pagano sempre, perché così va il mondo e perché così gira l’economia. Nella visione cinica e puramente mercantilista del Cavaliere, l’etica pubblica diventa «moralismo », e le tangenti diventano «commissioni». Se le toghe politicizzate fanno scattare le manette, o fanno un danno alle imprese o obbediscono ai comunisti. Se qualcuno azzarda qualche distinguo, o è un ipocrita o è un fesso. Come in quella di Hegel, anche nella notte della nuova Tangentopoli tutte le vacche sono nere.
È il vizio mentale (o il vezzo culturale) tipico di tutti i populismi. Una miscela esplosiva. Un po’ di Homer Simpson, che dice «certo il sindaco intasca qualche tangente, ma fa anche in modo che i treni partano in orario». Un po’ di Cetto Laqualunque, che di fronte all’avversario intenzionato a ripristinare la legalità si chiede «ma è legale ’sta cosa»? E non è un caso che, per ragioni uguali e contrarie, Berlusconi e Grillo adottano lo stesso giudizio di equivalenza. Il comico milanese sussurra «rubiamo tutti, quindi siamo tutti innocenti». Il comico genovese urla «rubate tutti, quindi siete tutti colpevoli».
DALLE RUBERIE DI “BATMAN” ALLA CONDANNA DI FITTO
La realtà è più complessa. Oggi, come nel ’92, l’Italia non è squassata solo dalla crisi economica, ma è anche schiantata da una deriva immorale che investe l’insieme delle sue classi dirigenti. La Prima Tangentopoli è stata costruita su un patto implicito: la politica taglieggiava l’industria per finanziarsi, l’industria foraggiava la politica per espandersi. La Seconda Tangentopoli è in parte diversa: politici e manager si arricchiscono insieme. I primi saccheggiano i finanziamenti statali, i secondi spolpano le finanze aziendali.
In questa chiave, gli scandali non sono tutti uguali, anche se sono tutti ugualmente gravi. Per capirlo servono la pazienza di approfondire e il coraggio di distinguere. C’è un primo filone, in questo momento il più inquietante, che chiama in causa direttamente la politica e i suoi protagonisti. Gli scandali nelle regioni, in questi ultimi anni, svelano un malaffare endemico che ha nomi e cognomi, e che è il frutto di un “modello” oggettivamente intrinseco al berlusconismo. Nessuno nega la serietà di inchieste che riguardano direttamente la sinistra, a partire dal caso Penati a Sesto San Giovanni fino ad arrivare ai rimborsi elettorali usati per comprare la Nutella a Milano.
Ma senza arrivare ai “maxi-processi” più clamorosi dello stesso Cavaliere (da All Iberian al Lodo Mondadori) o alle inchieste più scottanti sulle mafie (dal caso dell’Utri alla vicenda Cosentino) le corruzioni e le concussioni vere, in questi diciassette anni, sono state il pane quotidiano della destra. L’uso privato della funzione pubblica, che marchia a fuoco la biografia
politica del Cavaliere, è la costante più triviale che spiega le ruberie di Batman Fiorito e della giunta Polverini nel Lazio, le inchieste su Scopelliti in Calabria e le fresche condanne di Fitto in Puglia.
DAL “SISTEMA FORMIGONI” AI FURTI PADANI
Su scala infinitamente più vasta, e dunque palesemente più grave, c’è “l’associazione a delinquere” di Formigoni in Lombardia. Qui il culto della personalità del Celeste, che si può permettere il lusso di vivere a sbafo perché c’è sempre un Daccò che paga per lui, si somma al principio dell’illegalità che domina al Pirellone, dove i favori personali al governatore (dalle vacanze ai Caribi alle creme per il viso) si ricompensano con gli appalti per la sanità (dal San Raffaele alla Fondazione Maugeri). Qui la filosofia corruttiva è sistemica, pervasiva e decisamente più sosfisticata. Diversa da un altro scandalo lombardo, più pecoreccio anche se non meno devastante: quello che travolge la Lega e la famiglia Bossi, Trota in testa, colpevoli di aver distratto i soldi del finanziamento pubblico per comprare case, automobili e persino lauree false. È la nemesi del Carroccio, che arraffa urlando Roma Ladrona. Il Senatur, vecchio e malandato, se la può cavare con un rutto e un dito medio. Per Bobo Maroni la questione è assai diversa. Con questi furti tutti padani rischia di giocarsi la corsa alla Regione. C’è poi un secondo filone di scandali, al momento più “fecondo” sul piano giudiziario, che riguarda l’industria e la finanza. E investe allo stesso modo il pubblico e il privato. Qui, quello che colpisce è soprattutto l’avidità e l’infedeltà di capiazienda e manager senza regole e senza scrupoli, che lucrano fondi neri in proprio, nascondono documenti e informazioni al mercato, intralciano gli audit interni e le autorità di vigilanza. Il Montepaschi di Mussari, Vigni e Baldassarri è il caso più eclatante, per le dimensioni della banca (la terza in Italia) e la delicatezza del settore (il risparmio degli italiani). Ma l’arresto di Orsi in Finmeccanica, l’indagine su Scaroni all’Eni e quella sui vertici Saipem non sono da meno. Altrettanto si può dire, su un piano diverso, per le azioni di responsabilità contro la famiglia Ligresti sul dissesto Fonsai, per le malefatte della Bpm, o adesso per l’arresto del patron del Cagliari Cellino, del finanziere Proto e del solito Angelo Rizzoli.
LA “FRATELLANZA” IN MPS E LA “MANGIATOIA” FINMECCANICA
Qui si nasconde una zona grigia, dove il capitalismo di rapina e l’affarismo politico si annusano, si sfiorano e comunque si tengono. Si tenevano nel «socialismo municipale» di Siena, dove è accertata l’influenza storica della Fondazione in mano agli enti locali «rossi» e la “fratellanza” affaristica bipartisan instaurata dai vecchi sindaci senesi con Denis Verdini e il suo Credito Cooperativo Fiorentino, mentre non è affatto certa la presunta “maxi-tangente” da 2 miliardi che i giornali-cognati di Berlusconi continuano a spacciare per sicura (attribuendola genericamente alla sinistra) ma che i magistrati non hanno ancora trovato. In compenso, come dimostra l’arresto di Orsi e le inchieste su Lavitola, è più che certa la “manona” della solita Lega sulla nomina e sull’operato del manager appena trasferito in carcere a Busto Arsizio, così come è certo il tentativo compiuto a suo tempo dal Cavaliere e dai suoi faccendieri di trasformare Finmeccanica in una ricca mangiatoia aziendale, dalla quale attingere prebende e poltrone.
C’è con tutta evidenza, nel Paese, una nuova Questione Morale. Interroga la cosiddetta “élite”. Rivela i suoi peccati. Ma se oggi riesplode un’altra Tangentopoli, non si può pensare che ad essa sia estranea quella «cultura dell’impunità» di cui lo Statista di Arcore è stato, per quasi un Ventennio, un simbolo vivente. Oggi, di fronte alla bancarotta etica dell’establishment, serve un rinnovamento profondo delle regole e delle persone, che lo stesso centrosinistra finora non ha saputo produrre e di cui dovrà farsi carico nella prossima legislatura, se davvero avrà la forza di tornare al governo. Ma i processi sommari orditi in piazza dal tribuno del Movimento Cinque Stelle fanno solo danni. Nell’opinione pubblica monta un sentimento legittimo di indignazione, sale una sacrosanta domanda di giustizia. Ma il populismo anti-politico non è la risposta alla crisi di una Repubblica. Ci siamo già passati nel 1994. Ne stiamo ancora pagando le conseguenze.

La Repubblica 15.02.13