Che quello tra Pdl e Lega Nord, sul piano nazionale e ancor più in Lombardia, sia un (altro) matrimonio di convenienza è risultato fin dal principio chiaro a tutti. È perfino esplicito nelle varie occasioni in cui i nuovi dirigenti del Carroccio lo hanno speso come il motivo per cui l’alleanza – indigesta alla base del partito – andava necessariamente rimessa insieme, come il mezzo che giustifica il fine supremo della conquista, con la Lombardia, dell’intero fronte del Nord. Ma ciò che questa campagna elettorale ha progressivamente dispiegato è qualcosa di più e di peggio: quella tra la Lega e il Pdl, tra Maroni e Formigoni, cioè il “pezzo” del Pdl che in Lombardia ha governato per oltre tre lustri, è più di un’alleanza elettorale: è un patto indecente. Che, se mai fosse suggellato dai risultati elettorali, garantirebbe la sopravvivenza di entrambi. Della leadership tremebonda, e ora anche sfregiata dall’inchiesta sui vertici di Finmeccanica, di Maroni, che nella partita lombarda si gioca tutto: il futuro della Lega – se perde in Lombardia destinata a un declino probabilmente irreversibile – e quello suo personale. Difficile resistere con il suo manipolo di fedelissimi alla prevedibile smania di rivincita dei bossiani, ancora forti in Veneto, e di tutti coloro che gli intesteranno l’errore strategico dell’alleanza con Berlusconi e Formigoni.
Ma il patto indecente garantirebbe anche la sopravvivenza, se non del Formigoni politico, quantomeno dell’imponente sistema di potere che ha penetrato fin negli angoli più remoti l’istituzione pubblica e tutti i settori dell’economia che da essa dipendono: la sanità, i trasporti, l’edilizia, la formazione professionale, i servizi più o meno avanzati, dal facility management all’informatica. Quell’apparato di potere che ha prodotto, negli anni, la progressiva degenerazione in episodi ripetuti di commistione tra interessi pubblici e privati, fino alle turbative d’asta, al peculato, alla corruzione.
Come si è arrivati al patto indecente è storia di queste settimane. Colui che in origine avrebbe dovuto sottoscriverlo con Formigoni non era Maroni, ma Gabriele Albertini. Il Celeste per settimane ha ripetuto ossessivamente che Albertini era il candidato, anzi il vincitore certo, e che mai e poi mai la Lega – causa della sua caduta – avrebbe fatto parte del futuro governo della Lombardia. Non aveva fatto i conti con Berlusconi e con la sua necessità imprescindibile di un nuovo accordo con la Lega. Formigoni, costretto a un’inversione di 180 gradi, ha spregiudicatamente rinnegato nel giro di tre giorni il sodalizio con Albertini e si è dedicato alla costruzione meticolosa del patto indecente con Maroni.
Ha deglutito senza apparenti scompensi gastrici la polpetta dello slogan sul 75% delle tasse trattenute in Lombardia – l’unica idea della Lega – ha scritto di suo pugno il programma di Maroni nelle parti che incrociano gli interessi di Cl e della Compagnie delle Opere – sanità, dote scuola, famiglia – ha portato per mano Maroni nella redazione del settimanale d’area, Tempi, al quale il leader dei barbari sognanti ha scritto una lettera che pare ispirata dall’ufficio stampa della Cdo: tutto un fiorire di espressioni come “sostegno alla natalità”, “sussidiarietà”, “la nostra comune visione dove al centro ci sono l’uomo e la comunità”.
Poi Maroni, in disgraziata coincidenza temporale con la notifica della chiusura delle indagini su Formigoni, sul direttore generale della Sanità Carlo Lucchina, sul braccio destro del governatore Nicola Sanese, sui faccendieri e gli altri membri della cricca del Pirellone, ha annunciato che il suo assessore alla Sanità sarà Mario Melazzini. Fedelissimo del Celeste, già vice di Lucchina nelle stanze dove si cucinavano le delibere “tailor made” per San Raffaele e Maugeri, nonché assessore alla Sanità dell’ultima giunta Formigoni. E infine ieri, dopo qualche comprensibile titubanza, Maroni ha finalmente garantito che in caso di vittoria Formigoni continuerà a girare il mondo nelle vesti di commissario generale per l’Expo, portandosi appresso le accuse di corruzione e associazione a delinquere che gli sono mosse dalla Procura di Milano.
Difficile immaginare Maroni folgorato e caduto da cavallo sulla via di Damasco. Più agevole intravedere dietro lo scambio di cortesie tra i due ex cordiali antipatizzanti il disperato bisogno l’uno dell’altro. Per far sopravvivere se stessi, il sistema perverso che si regge sull’appartenenza invece che sul merito e la conseguente ragnatela di rapporti, di affari, probabilmente – se hanno ragione le Procure – di malaffare. Questa è la musica che suonano insieme le due anime della destra in Lombardia. Questo è il rischio che la Lombardia corre se, dopo 18 anni, non sarà capace di voltare finalmente pagina. Come suggerisce il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, in questa sinfonia i solisti non sono destinati al successo: non una sola nota va dispersa, lo spartito del cambiamento non ammette assoli o divagazioni.
La Repubblica 14.02.13