«Le mogli leccano il pavimento della chiesa per dimostrare di non aver perduto l’onore». È passato quasi mezzo secolo da quel titolone su «Amica» che lanciava un reportage di Vittorio Lojacono sul tema: «Gli uomini continuano a considerare le donne esseri inferiori». Mezzo secolo.
Eppure, pezzi di quell’Italia ancora immersa nel passato, e peggio ancora compiaciuta di esserlo, ce li siamo tirati dietro. Lo capisci leggendo «Questo non è amore. Venti storie raccontano la violenza domestica sulle donne», 269 pagine, 16,50 euro, pubblicato da Marsilio. Un’opera collettiva messa insieme da giornaliste, giudici, psicologhe, docenti universitarie che ruotano intorno a «La 27ª ora», lo spazio di Corriere.it che prende il nome da una ricerca della Camera di commercio di Milano da cui emerse che, con la sovrapposizione di più ruoli e mestieri, «la giornata delle donne sembra durare 27 ore».
Non è una collezione di poverette assassinate, la trama del libro. Tranne quella di Veronica, uccisa con una pallottola alla nuca («o mia o di nessuno») dal suo ex fidanzato e ricordata dalla mamma Clementina Iannello che ha fondato in memoria della figlia un’associazione per aiutare le donne in difficoltà, le storie raccolte sono tutte storie di piccola, banale, ordinaria, barbarie quotidiana. Dove il tema è l’idea del possesso. La rivendicazione di tanti maschi, Dio ci perdoni, del diritto a usare una certa dose di violenza. Di più, maschi convinti che una bella sventagliata di ceffoni, come nel film di Lina Wertmüller, possa domare qualunque puledra ribelle.
Ed ecco Maria, che per proteggere le figliolette si è lasciata pestare per anni dal marito finché quello una sera spaccò, scagliandogliela addosso, la bambola della piccola Gaia: «Fu come se avesse toccato lei. La bambina lo guardò con terrore, ma anche con delusione. Era ferita. E io capii che avevo sbagliato, che non era possibile riuscire a tenerle fuori da questa storia. Che non sarebbe bastato chiudere le porte, non urlare quando mi picchiava, cercare di fare le lavatrici perfette o imbandire la tavola al meglio. No, loro erano colpite forse più di me. (…) Appena uscì per andare a lavorare, cominciai a fare subito di nascosto le valigie».
Ecco Sara, che era convinta d’aver sposato un uomo stupendo («mi avvolgeva di parole, mi affascinava, riusciva a farmi vedere bianca una parete nera») finché lui non cominciò a tirare di coca: «Una vigilia di Natale è entrato in casa con un manganello nero, come quello delle guardie: io non l’avevo visto mai, solo in televisione. Ha iniziato a darmelo sulle gambe, era un dolore tremendo. Poi ha preso mio figlio e mi ha lasciata sola a casa, il 24 dicembre, piena di lividi. La mattina dopo mi sono svegliata che avevo bagnato il letto».
E poi Giovanna, che era innamorata di suo marito e certa d’essere dentro una bella favola («Vivevamo a Londra in una bellissima casa affacciata sul Tamigi. Feste, concerti, vestiti firmati, vacanze in barca a vela…») finché una sera lui cominciò a riempirla di calci nonostante fosse incinta («Si è avventato su di me come una belva, non si fermava. Io cercavo di proteggere la pancia. E lui colpiva sempre più forte…») per riversare successivamente le sue attenzioni sulla figlioletta: «La baby sitter mi mostrò dei lividi impercettibili sulle cosce della bambina. Fu come una frustata sul viso, una picchiata d’acqua gelida in faccia. Feci le valigie immediatamente, mi trasferii da un’amica».
E poi ancora Emma e Greta e Antonella e Amal e Monika… E non c’è storia che non sia diversa e insieme uguale a quella delle altre. Così come i compagni, i fidanzati, i mariti. Tutti per mille aspetti diversi, tutti in troppe cose uguali. Francesco, uno degli uomini ascoltati dalle autrici per sentire l’altra metà, ha confidato il trauma di essersi scoperto incapace di controllare la collera: «Le ho messo le mani al collo e mi sono spaventato per la mia rabbia».
E pagina dopo pagina, storia dopo storia, umiliazione dopo umiliazione, emerge la sensazione netta e sgradevole che dietro i televisori a led e a schermo piatto e gli iPad e le webcam e i treni Frecciarossa che ti portano in tre ore da Milano a Roma riemergono rigurgiti di quell’Italia che credevamo sepolta. Quella dove La Stampa pubblicava titoli come «Nessun ballo esclude il rischio del peccato». Dove agenti e carabinieri consultavano «L’enciclopedia di polizia» di Luigi Salerno dove si diceva che «è indiscutibile come il danno che dall’adulterio della donna ricade sul marito, sia infinitamente più grave del danno che dall’adulterio del marito ricade sulla moglie». Dove Oggi spiegava come fosse «giunta l’ora di parlare del gallinismo» anziché del gallismo dei nostri playboy da spiaggia: «Quando i nostri oltrepassano il segno spesso la colpa è delle turiste». È la disperazione della mamma di Veronica: «Un bastardo mi ammazza la figlia e l’avvocato tira in ballo la minigonna».
Insieme, però, emerge anche un’Italia diversa. Migliore. Che consola. Dove sono sempre di più le donne che riescono a rompere le catene della rassegnazione, dei pregiudizi, della paura. Donne che denunciano. Che danno battaglia. Che si rivolgono ai centri di aiuto e sostegno (ce n’è un elenco di 60 pagine, città per città, nel libro) per tirar fuori dai guai sé stesse e magari quelle che non ci riescono da sole.
Quasi sempre, tuttavia, quelle che ce la fanno a uscire da certi gironi d’inferno casalinghi ce la fanno perché sono in grado di reggere da sole anche economicamente. Ed è lì che sono insopportabili i ritardi enormi dell’Italia. L’ultima in Europa per tasso di occupazione femminile. Trenta punti sotto la Danimarca, venticinque sotto la Svizzera, la Svezia, l’Olanda… Ed è lì che emerge uno dei nodi centrali: offrire alle donne opportunità di inserimento nel lavoro può voler dire strapparne tante alla schiavitù domestica di certi compagni-padroni.
Il Corriere della Sera 13.02.13