Ci sarà spazio per il cahier de doléances, le lamentazioni sullo stato comatoso dell’università italiana. Ma gli organizzatori hanno pensato alla giornata di oggi come un momento per discutere del futuro dell’Italia attraverso il futuro dell’università e della ricerca del nostro Paese. Oggi al Teatro Piccolo Eliseo a Roma si ritroveranno studenti, ricercatori, docenti chiamati a raccolta da Left. «+ Sapere = Sviluppo» è il titolo di questo grande appuntamento che il settimanale offre alla coalizione guidata da Pier Luigi Bersani per confrontarsi con un mondo troppo bistrattato dalle politiche degli ultimi governi.
A poche settimane dalla scadenza elettorale gli operatori della conoscenza chiederanno precisi impegni alla politica. In primis, uno stop alla contrazione delle risorse pubbliche, per le quali l’Italia è agli ultimi posti tra i Paesi Ocse. Poi, un nuovo slancio per la ricerca pubblica, fondamentale per l’innovazione tecnologica, insieme a nuove politiche industriali. E una riforma del sistema di valutazione, tanto importante quanto oggi inefficiente. Infine, un nuovo sistema per il diritto allo studio, su cui il ministro Profumo ha recentemente redatto un decreto di riforma duramente contestato dagli studenti.
«Oggi, riprendendo discussioni interrotte in passato, serve interrogarsi sul ruolo del sapere come motore di sviluppo di un Paese, indipendentemente dalle logiche mercantilistiche, ma non svincolato dalla sua funzione originaria di strumento capace di innovare e di migliorare le condizioni sociali ed economiche delle persone ci racconta Luca Spadon, portavoce del sindacato studentesco Link negli ultimi anni il dibattito pubblico sull’università si è concentrato principalmente intorno ai temi dell’organizzazione delle strutture universitarie. Sarebbe ora di parlare della funzione dell’università nella costruzione del nuovo modello di sviluppo».
Oggi, nel mondo dell’università e della ricerca, sono molti a pensare di avere ormai oltrepassato il punto di non ritorno. I dati divulgati dal Cun sul crollo delle iscrizioni universitarie e sui tagli al finanziamento hanno portato all’attenzione di tutti la drammatica situazione. Ma la vita quotidiana di studenti, ricercatori e professori è costellata da tempo di prove tangibili del declino. Anche se colpita da mille problemi che la affliggono ogni giorno, però l’università italiana non è solo una storia di lacrime e sangue. I redattori di Roars negli ultimi mesi hanno fatto della loro piccola rivista telematica una grancassa di idee purtroppo poco diffuse sui grandi giornali. Hanno messo insieme i numeri e hanno ribaltato tanti luoghi comuni. Le università italiane sono troppe e alcune vanno chiuse, si legge spesso sulle colonne dei grandi quotidiani italiani. Peccato che l’Italia abbia 1,6 atenei per milione di abitanti contro i 2,3 dell’Inghilterra, i 3,4 dell’Olanda, gli 8,4 della Francia e addirittura i 14,5 degli Usa. La ricerca italiana produce poco e i soldi investiti sono risorse buttate, si dice spesso giustificando i tagli di bilancio. Ma a guardare bene le classifiche internazionali, gli atenei italiani hanno un buon livello medio, senza grandi eccellenze ma con tante università di buona qualità su tutto il territorio nazionale. Le classifiche internazionali sulla produttività scientifica collocano l’Italia sempre nelle prime posizioni. Se poi il sostegno pubblico fosse maggiore l’Italia potrebbe anche primeggiare in molte discipline.
Di chi è quindi la colpa del declino italiano? Sicuramente di qualche barone e del nepotismo che domina poche facoltà. Ma soprattutto del declino degli investimenti privati nei settori della ricerca e dell’innovazione.
L’Italia è agli ultimi posti in tutte le classifiche sulle industrie innovative, sull’occupazione dei giovani laureati e sul numero di ricercatori occupati nel settore privato. Anche per questo Left ha scelto di mettere dall’altra parte del tavolo non solo chi nel Pd e in Sel si occupa di questi temi, ma anche Stefano Fassina, che per i democratici si occupa di lavoro ed economia. Per ribattere all’assunto di berlusconiana memoria che se abbiamo le scarpe più belle del mondo, possiamo anche fare a meno delle nostre università.
l’Unità 12.02.13