Come è noto, stanno insediandosi le commissioni nazionali che dovranno stabilire liste di idonei nei vari raggruppamenti scientifici dell’università. Da queste liste gli atenei dovranno poi pescare i futuri insegnanti. Bisogna considerare che l’imbuto è strettissimo (conformemente alle misere risorse disponibili) e che a questa prima tornata si è presentato un vero esercito di aspiranti, ciascuno dei quali dovrà essere valutato.
È evidente che le commissioni svolgeranno con molta difficoltà il loro compito, con il rischio di esplodere di fronte a un lavoro immane. La macchina, comunque, è stata avviata. Bisogna, però, anche ricordare che il tutto è stato preceduto da una sottile e generale misurazione bibliometrica: da tempo, infatti, un’Agenzia nazionale ha avuto l’incarico di classificare i “prodotti” di questa imponente massa di candidati servendosi di indici numerici che hanno permesso di stabilire una linea “mediana”, in-
somma una soglia da superare per poter essere considerati idonei. Alle spalle del lavoro delle commissioni sta insomma un processo di valutazione, supposto oggettivo, che non ha mancato di suscitare un mare di perplessità e di critiche, esplicitate anche su questo giornale.
Una notizia che mi pare sintomatica è costituita da una nota ufficiale del ministero dell’Istruzione datata 11 gennaio 2013. Il ministro, evidentemente preoccupato dall’affollamento delle candidature e dal conseguente rischio di paralisi delle commissioni, propone espedienti dilatori per almeno alcune di esse e anticipa subito un nuovo bando per il 2014 con il dichiarato intento di invitare la folla dei candidati a distribuirsi anche sul prossimo anno. Ma la nota ministeriale dice inoltre qualcosa di decisamente più importante: rassicura le commissioni che esse saranno sovrane e avranno piena autonomia e completa responsabilità riguardo alle loro scelte: in breve, comunica ai commissari che potranno anche non tenere conto degli indici di valutazione predisposti dall’Anvur (cioè dall’agenzia sopra nominata). Se ne servano se lo credono opportuno, ma sono liberi anche di “discostarsene” e perfino di non considerarle per nulla.
Non è una notizia da poco e non riguarda solo il mondo accademico nel quale da troppi anni il reclutamento è praticamente bloccato. Si apre, infatti, una piccola ma sintomatica incrinatura nel tessuto spesso di una “cultura della valutazione” che ha radici ormai bene impiantate in un’idea di “conoscenza” di tipo produttivistico ed è intrisa da parte a parte dalla logica ormai dominante dell’“impatto”, cioè dalla quantificazione delle risposte suscitate dai prodotti della ricerca.
Che questo impatto si traduca poi nel numero di citazioni e in una scelta (opinabile) della rilevanza dei luoghi di pubblicazione (riviste di serie “A”, ecc.) e di chi ha il privilegio di legittimarli, manifesta con chiarezza dove si origini tale “cultura” e chi ha il potere di orientarla. Insomma qui, a dispetto della sbandierata oggettività o neutralità, emerge proprio quell’intreccio tra sapere e potere che si vorrebbe occultare, e di conseguenza diventa visibile che la cultura della valutazione è governata da un principio di produttività che si ingrana perfettamente con le logiche complessive del sistema neoliberale ma non ci azzecca per niente con le esigenze intellettuali di chi si avvia sulla strada della ricerca e mira all’insegnamento universitario. Per dirla con un eufemismo, c’è uno iato tra la cultura della valutazione tutta concentrata sui prodotti e quella libera cultura critica che ha caratterizzato la storia gloriosa dell’autonomia universitaria fin dalla sua nascita.
Tornando allo specifico, esiste ormai in Italia una diffusa opinione critica in proposito: ci sono siti molto frequentati (come Roars) che raccolgono utilmente materiali e documenti critici, si stanno moltiplicando interventi pubblici, saggi e libri (per fare solo un esempio, Valutare e punire di Valeria Pinto, appena uscito da Cronopio), e si ha in definitiva la sensazione che si stiano cominciando a fare seriamente i conti con una cultura che riduce ai prodotti e alla loro quantificazione un’“attività” intellettuale (di cui non siamo davvero privi) ben più ricca e fatta di esperienze che non si possono trasformare ipso facto in indici numerici.
La nota ministeriale alla quale mi sono riferito è certo solo un segnale, frutto peraltro di un’aspra battaglia (condotta dall’Associazione dei docenti di filosofia teoretica, Sifit). Ma è un segnale significativo perché rimette in circolazione parole come “autonomia” e “libertà”, che sono state troppo rapidamente evacuate dai discorsi dominanti e che è molto importante che vengano rimesse in campo e riattivate nelle pratiche, dato che poi è ispirandosi a esse che gli insegnanti universitari (e con loro tutti gli insegnanti di ogni ordine di scuola) si ostinano ancora a dare un riempimento di senso al loro mandato sociale e alla loro professionalità.
La Repubblica 11.02.13