Il Parlamento europeo considerava inaccettabile scendere sotto la soglia dei 960 miliardi. Dopo 25 ore di negoziato ininterrotto, i capi di governo se ne sono usciti con un bilanciobeffa che prevede impegni di spesa per 959 miliardi e impegni di pagamento per 908. Lo spirito gesuitico del presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, questa volta ha superato se stesso. Ma certamente si è spinto oltre la soglia della credibilità.
Adesso tutti naturalmente parlano di «un buon compromesso », ognuno guardando alle cifre che gli fanno più comodo. Ma il senso dell’accordo raggiunto ieri è abbastanza semplice: ha vinto Cameron e ha perso l’Europa. Per la prima volta la Ue taglia i propri bilanci rispetto al passato e certamente rinuncia ai mezzi necessari per mettere in campo politiche efficaci di stimolo alla crescita, alla competitività, alla ricerca e alle nuove tecnologie. Questi settori-chiave restano più che mai affidati alle politiche (e ai finanziamenti) nazionali. I Paesi ricchi del Nord, che non a caso peroravano la necessità dei tagli in nome dell’austerità, ne ricavano un piccolo vantaggio competitivo in più.
Nell’amarezza per un cattivo accordo, l’Italia può trarre più di un motivo di soddisfazione. Restiamo uno dei Paesi che versano nelle casse europee più di quanto ne ricevano, nonostante il nostro indice di prosperità relativa stia ormai scendendo leggermente al di sotto della media comunitaria. Tuttavia Monti è riuscito a rimediare al disastroso accordo firmato nel 2005 da Berlusconi, che ci aveva portato, nel 2011, a un saldo passivo di oltre sei miliardi. Sulla media dei sette anni il nostro contributo alle casse europee scende da 4,5 a 3,8 miliardi annui: in percentuale del Pil, dallo 0,28 allo 0,23. Tra i contributori netti al bilancio Ue, siamo il Paese che più migliora la propria posizione, anche perché eravamo quelli che, in termini relativi, stavano messi peggio di tutti.
Ma la partita non è finita con la maratona di questi due giorni.
Per la prima volta, grazie al Trattato di Lisbona, il Parlamento ha poteri di codecisione anche sulle prospettive finanziarie. E sicuramente intende dare battaglia.
Schulz ha chiesto e ottenuto una clausola di revisione che tra due anni permetterà di rivedere le cifre decise ieri. E nei mesi che passeranno da ora al voto del Parlamento, previsto in giugno, gli eurodeputati cercheranno di colmare almeno in parte la voragine che separa gli impegni di spesa e gli impegni di pagamento.
Questa infatti è forse la principale fragilità dell’accordo raggiunto ieri. Una certa differenza tra impegni di spesa e pagamenti effettivi è fisiologica, visto che non tutti i programmi finanziati con fondi europei vanno a buon fine. E dunque ogni anno risultano cifre messe a bilancio ma non spese effettivamente. Tuttavia calcoli di opportunismo politico hanno portato a ingigantire questa discrepanza con risultati disastrosi.
In sostanza, con l’accordo di ieri, i governi si impegnano a spendere 960 miliardi, ma poi, al momento di pagare le fatture, i Paesi del Nord si rifiuteranno di superare la soglia degli impegni di pagamento, fissata a 908 miliardi. Già nei sette anni dell’intesa precedente, questa dicotomia ha fatto accumulare un deficit crescente in modo esponenziale. Alla fine del 2011 la Commissione, che gestisce il bilancio Ue, aveva impegni di spesa che superavano di tre miliardi gli impegni di pagamento. Nell’ottobre 2012 questa cifra era lievitata fino a 10 miliardi. A fine anno, secondo alcune stime, ha raggiunto i 15 miliardi. Nessuno è in grado di dire a quanto ammonterà alla fine del 2013, quando si chiuderà la contabilità del settennato precedente. Quello che è certo è che quel deficit si trasferirà alla nuova gestione, che dunque partirà con un onere negativo di almeno 15-20 miliardi. E, visto gli accordi sottoscritti ieri, l’Europa continuerà ad accumulare nuovo fabbisogno e a non pagare le fatture che pure i governi hanno accettato di sottoscrivere.
Se questa non è una truffa, è certamente una beffa ai danni dei contribuenti e soprattutto degli elettori europei, che vengono così ingannati sulla reale natura degli accordi sottoscritti dai loro capi di governo. L’importante, per i leader nazionali, è uscire dalla sala del Consiglio cantando vittoria. Ma l’importante, per i cittadini, sarebbe conoscere la verità. Se il Parlamento riuscirà a obbligare i governi ad un minimo di onestà, avrà reso un servizio all’Europa.
La Repubblica 09.02.13