Una “detassazione selettiva del reddito (da lavoro) femminile per portare il tasso di occupazione femminile dal 46% al 60%”. È la proposta di Monti e della sua lista Scelta Civica per incoraggiare l’occupazione femminile. Non si tratta di una proposta nuovissima. La hanno più volte avanzata anche Andrea Ichino e Alberto Alesina, con la specificazione che, per non perder gettito,ilcostodell’operazionedovrebbe essere sostenuto da un simultaneo aumento, si spera selettivo, dell’aliquota dei redditi maschili. Avrebbe il vantaggio di aumentare il potere negoziale delle donne nella coppia rispetto alla partecipazione al lavoro (remunerato). Nella speranza che simmetricamenteciòincentiviinvece gli uomini ad assumere parte del lavoro famigliare, svolto di norma per la maggior parte, se non nella totalità, dalle donne con carichi famigliari — che abbiano o meno anche un lavoro remunerato.
Non è ben chiaro come questa proposta si concili con quella della riduzione del cuneo fiscale sul reddito da lavoro per tutti e ancor più con questioni di equità a livello individuale e famigliare. Un lavoratore maschio a basso reddito che sia l’unico percettore di reddito in famiglia sarà tassato di più di una lavoratrice nelle sue medesime condizioni o anche di una sposata con un professionista ad alto reddito?
Anche lasciando da parte le questioni di equità, è l’ipotesi di fondo, in puro stile economicista, che manca la sostanza del problema. I vincoli alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro in Italia sono essenzialmente tre.Inprimoluogo,c’èunabassa domanda di lavoro che non solo colpisce più le donne che gli uomini, ma più le meno istruite delle più istruite e più nel Mezzogiorno che nel Centro- Nord. L’inattività femminile, specie tra le più giovani, è fortemente concentrata al Sud e tra le donne meno istruite. Un reddito da lavoro irraggiungibile non può avvantaggiarsi di nessuna detassazione. Meglio sarebbe offrire vera formazione e vera occupazione, alternativa non solo al casalingato, ma anche al ricatto del lavoro in nero senza protezioni e in condizioni rischiose, come ha mostrato il dramma di Barletta. In secondo luogo, il 20% delle lavoratrici continua a lasciare il lavoro per motivi famigliari, perché gli orari di lavoro mal si conciliano con le esigenze di bambini piccoli o famigliari non autosufficienti, stante anche la carenza dei servizi e l’organizzazione degli orari scolastici (quotidiani, non solo quelli delle vacanze). Quelle che tengono duro, fanno i salti mortali e devono spesso affidarsi vuoi alle nonne, vuoi al mercato, sempre che abbiano le une o le risorse per l’altro. Da ormai un decennio sia il settore dei servizi che quello della scuola ha conosciuto un costante e radicale ridimensionamento delle risorse finanziarie disponibili. Anche il governo Monti ha proseguito sulla stessa linea (con conseguenze anche sulla domanda di lavoro, per lo più femminile, in questi settori). E non vi è nulla nella agenda Monti che richiami la questione. Infine, l’Italia è tra i paesi sviluppati quello in cui la divisione del lavorononpagatonellacoppia(quando c’è coppia, che non è sempre il caso) è tra le più asimmetriche, indipendentemente dal fatto che la donna sia occupata. Se è vero che nelle coppie in cui la donna è occupata gli uomini fanno qualche cosa in più, le donne complessivamente hanno un carico di lavoro pagato e non pagato di circa 9 ore settimanali più alto di quello degli uomini. L’alternativa non è tra fare la casalinga o la lavoratrice remunerata, come ha suggerito Monti a Milano presentando la sua proposta. È tra fare solo la casalinga o anche la lavoratrice remunerata. Non sarà la detassazione del lavoro delle donne ad incentivare gli uomini a ridurre il proprio orario di lavoro pagato per fare un po’ più di lavoro domestico, tanto più in un contesto complessivo di vulnerabilità nel mercato del lavoro, dove l’imperativo (condiviso da Monti) è che occorre essere flessibili rispetto alla domanda di lavoro, più che rispetto ai bisogni dei propri famigliari.
Se si vuole agire sul lato delle tasse, meglio agire sulle detrazioni per i costi dei servizi di cura, più sostanziose ed estese di quelle, risibili, oggi disponibili per il costo del nido. Per evitare di colpire le più povere, devono configurarsi anche come un’imposta negativa, fruibile anche da chi non ha un reddito capiente. Se sufficientemente generose farebbero emergere un po’ di lavoro nero. La priorità andrebbe tuttavia data allo sviluppo dei servizi di cura per l’infanzia e la non autosufficienza e all’estensione dell’orario scolastico nel ciclo dell’obbligo. Si sosterrebbe così la conciliazione, si amplierebbe la domanda di lavoro, specie femminile, e si investirebbe nelle nuove generazioni. Nel discorso europeo, questo si chiama welfare dell’investimento sociale. Forse l’europeista Monti non lo sa.
da La Repubblica