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La crisi dell’università è figlia di anni di tagli, di Francesco Benigno

In una campagna elettorale, come questa, attraversata da ventate di esasperato populismo esistono degli idola polemici, dei totem della comunicazione che attraggono tutta l’attenzione e impediscono di vedere approfonditamente le cose. È come se non fosse possibile, ad esempio, andare al di là del dibattito sull’abolizione totale o sulla rimodulazione dell’Imu: come se abolendo l’Imu o riducendola non si dovessero cercare i soldi da qualche altra parte, o come se, una volta abolita l’Imu questo Paese che adesso è fermo, culturalmente prima ancora che economicamente, fosse – con un tocco di bacchetta magica pronto a rimettersi in marcia. Attorno a questi totem si schierano spesso tifoserie disposte più a riconoscersi per slogan che ad accettare gli argomenti altrui e questo disporsi a falange impedisce di guardare in faccia i problemi molto seri che il Paese ha davanti. Lo stato dell’università italiana è un ottimo esempio di questa situazione. Il Consiglio Universitario nazionale (Cun) ha ora lanciato l’allarme sul calo delle iscrizioni (-17% dal 2003 all’anno scorso, e quest’anno non sarà certo meglio) facendo notare come l’Italia sia sensibilmente sotto la media europea per numero di laureati, così come d’altra parte lo è per gli investimenti nella ricerca. Nel commento ai dati, peraltro già noti, si tira in ballo da una parte il ciclo economico negativo e la contrazione delle risorse per il diritto allo studio, la riduzione dei corsi di laurea (1195 in meno), il crescente ricorso al numero programmato. Diciamo con più nettezza quello che il Cun non ha potuto o voluto dire a chiare lettere. Negli anni di governo di Berlusconi l’antica diffidenza nei confronti dell’università pubblica si è mescolata a nuove, presunte certezze, cui il ministro Tremonti ha dato voce: tra esse che una serie di ripetuti tagli lineari (5% l’anno) avrebbe miracolosamente migliorato la qualità del sistema dell’istruzione superiore. Come se a uno zoppo si tolga la stampella immaginando che così cammini meglio. A ciò si aggiungeva la convinzione che l’autonomia del sistema universitario fosse stata un completo fallimento e che solo una gestione dal centro potesse assicurare l’efficienza del sistema: da un lato sopravvalutando così le capacità delle strutture direttive del ministero e dall’altra evitando una riflessione sul tipo di autonomia che si è sperimentata, vale a dire un’autonomia senza responsabilità, una carota (peraltro piccola e povera) senza bastone. Il tutto entro una cornice di depotenziamento del ruolo dell’università pubblica, di mancanza di un progetto di competitività delle sedi italiane nel quadro internazionale e nel contesto di una campagna di stampa che prendendo spunto da una serie di casi di malcostume, dipingeva l’università italiana come l’epicentro dei mali del Paese (mentre ne era solo lo specchio fedele): nepotismo più inefficienza, più arroccamento nelle posizioni di privilegio. Questa strategia è culminata nell’esperienza di governo del ministro Gelmini ispirata all’idea della salubrità della dieta dimagrante per l’università: che cioè riducendo l’offerta formativa e snellendo l’università, con meno docenti e magari meno sedi, tutto si sarebbe rimesso al meglio. Ora siamo al redde rationem e presto ci diranno che bisognerà fare tutto all’incontrario: contrordine compagni. Quello che colpisce nella discussione attuale, incentrata su dove trovare i soldi per l’università è ancora una volta la tendenza a schierarsi a coorti: i soloni che vedevano nella strategia dell’affamare il cavallo l’unica soluzione, ora, davanti ai risultati penosi che abbiamo sotto gli occhi, tacciono; ma si ergono altri opposti tifosi che vogliono solo difendere il diritto allo studio, senza se e senza ma, e cioè senza precisare di quale studio; e per i quali aumentare le tasse universitarie è un tabù, anche nel caso di aumenti legati al reddito e a una possibilità così di finanziare le borse di studio per i meritevoli non abbienti. Soprattutto, questo confuso dibattito si svolge senza uno straccio di progetto sul ruolo dell’università nello sviluppo del Paese e nel contesto della accresciuta competitività internazionale. Mentre tutti sappiamo come un’istruzione superiore di qualità sia un prerequisito fondamentale di uno sviluppo duraturo nei Paesi avanzati, oltreché un volano indispensabile alla crescita sociale e culturale del Paese.

da L’Unità

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