È l’Italia che si impoverisce, e nella crisi si perde per via pezzi interi di futuro. È la spirale di arretramento economico e sociale, che arriva a intaccare il suo giacimento più prezioso, quelle risorse di capitale umano che non ha saputo valorizzare. È ciò che non solo interrompe ma rischia di minare ogni prospettiva di sviluppo del nostro Paese. È di tutto questo che ci parla il dato – forse il più pregnante, tra quelli che “raccontano” la crisi – del crollo delle immatricolazioni all’Università.
Non è il primo anno che viene denunciata questa inversione di tendenza nel processo di scolarizzazione superiore in Italia, che la inchioda agli ultimi posti per numero di laureati tra i paesi OCSE. E proprio i numeri del decennio tracciano la sua parabola declinante, il precipitato di occasioni sprecate. Sprecato è il forte investimento che dalla metà degli anni Novanta aprì l’accesso all’istruzione avanzata a una massa di giovani, specialmente donne e meridionali, con la promessa di buona occupazione, di un cammino di sviluppo europeo, verso una società della conoscenza e un’economia fortemente competitiva. Si iscrivevano all’Università sempre più diplomati, fino a oltre il 70% nel 2004, soprattutto in un Mezzogiorno che colmava i divari formativi con il resto del Paese, conquistando parametri sempre più in linea con gli standard europei. Da allora, è iniziato un lento declino che la crisi ha accelerato, e quella percentuale è tornata ai livelli di quindici anni fa. Crollano le immatricolazioni non solo per un calo demografico o per la diminuzione degli immatricolati adulti (fenomeno importante in seguito alla riforma universitaria di fine anni Novanta). Oggi pesa la crisi, la difficoltà delle famiglie a farsi carico del costo di mandare i propri figli all’Università. Tuttavia, la ragione principale va ricercata proprio nella promessa mancata sul lavoro, nel tradimento alle nuove generazioni, anche ai laureati, a cui l’Italia ha dato soltanto un’alternativa tragica tra la precarizzazione e la marginalizzazione, lo “spreco” (si pensi ai Neet, alle centinaia di migliaia di laureati inoccupati) o peggio la “fuga” (con l’esercito dei nuovi fuorusciti).
Al di là dei limiti interni al sistema formativo e universitario, della notoria mancanza di una politica per la ricerca all’altezza delle sfide, del diritto allo studio spesso vergognosamente negato, i fattori economici e sociali, attuali e di prospettiva, assumono un peso decisivo nelle scelte formative. È la forma più grave di “scoraggiamento” sociale: matura l’idea, tra le generazioni più giovani, che investire nel sapere, e dunque in se stessi, alla fine non serva, altri sono i modelli di affermazione sociale, spesso sia inutile, per l’insufficiente capacità del sistema produttivo di assorbire le risorse umane formate, avvitato senza politiche pubbliche adeguate in “circolo vizioso” tra offerta e domanda (le università non producono capitale umano adeguato, le imprese non vogliono o non sono attrezzate a valorizzarlo). A che serve andare all’Università a per un giovane che si troverebbe a venticinque anni senza un lavoro all’altezza delle sue competenze e ambizioni? A che serve se a trent’anni, senza un sistema di protezione familiare o clientelare alle spalle, non avrà un reddito che garantisca una vita dignitosa?
Chissà che qualcuno oggi non si accorga, pure in una campagna elettorale dove fanno capolino vecchi uomini e vecchie idee, che questo dato sul crollo delle immatricolazioni è un frammento di specchio che restituisce, con un’immagine inquietante, la più nitida visione della posta in gioco: il ruolo dell’Italia, della sua società, della sua economia, nell’Europa e nel mondo di domani. Un domani per cui si sta facendo ormai troppo tardi, e non si può perdere altro tempo. Non si può perdere ancora.
da l’Unità