Il documento su «Politiche di lavoro e welfare» presentato ieri da Monti merita una attenta analisi critica. Alcune parti hanno un carattere essenzialmente celebrativo della attività svolta dal governo tecnico e sono prive di ogni pur doverosa riflessione autocritica, ad esempio in materia di effetti imprevisti della riforma delle pensioni (leggasi esodati). In altre parti si apre qualche spiraglio nella impostazione autoelogiativa: così rispetto alla legge Fornero sul mercato del lavoro che viene ampiamente lodata, salvo l’accenno ad alcune criticità da riconsiderare, celate dietro il termine pudico di «monitoraggio». In tema tuttavia non si dice la cosa essenziale, cioè che quella riforma, al di là delle buone intenzioni, non ha prodotto alcun effetto positivo sull’occupazione, anzi ha determinato ulteriori problemi in ragione della ridondanza e complessità delle discipline introdotte. Altre parti del documento appaiono invece largamente condivisibili, specie negli enunciati: ad esempio quando si fa riferimento a piani straordinari per l’occupazione giovanile e femminile, si invocano maggiore efficienza della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici per l’impiego, si sollecitano nuove politiche europee in materia di sostegno alla occupazione, e così via. Su ognuno di questi punti andrebbe aperto un confronto di merito sulle misure concrete da adottare. Ma su due questioni, in particolare, vanno dichiarate le più nette riserve critiche. La prima riguarda l’idea di introdurre un ulteriore contratto flessibile descritto con la formula criptica della «rimodulazione sperimentale del contratto di lavoro a tempo indeterminato». Di cosa si tratta in concreto? A quanto si intende viene abbandonata la formula illusoria, tanto cara a Pietro Ichino, del cosiddetto «contratto unico», che unico naturalmente non era perché si sarebbe aggiunto alle altre innumerevoli forme di assunzione precaria, e che consisteva nello scambio tra assunzione (in apparenza) a tempo indeterminato e sottrazione alla disciplina dei licenziamenti. Ciò non sorprende perché gli altri estensori del testo nelle loro precedenti cariche si erano espressi con grande forza contro quella proposta (Bombassei, già vicepresidente di Confindustria) e Giuliano Cazzola (già deputato del Pdl). Del vecchio «contratto unico» viene invece presentata una versione più blanda: si introdurrebbe un ulteriore contratto flessibile, incentivato con sgravi contributivi, non è chiaro se riferito solo ai giovani o alla generalità dei disoccupati, mediante il quale si potrebbe essere assunti, in apparenza, a tempo indeterminato salvo poi essere liberamente licenziabili, con modeste indennità nei primi 2 anni e con più rilevanti impegni di ricollocazione dopo 3 anni dalla assunzione. La proposta assomiglia terribilmente a ciò che chiesero i datori di lavoro agli inizi del secolo scorso e fu poi sancito dal codice civile del 1942: il rapporto di lavoro è normalmente a tempo indeterminato ma il lavoratore può essere liberamente licenziato salvo preavviso. Non sembra un grande progresso. Né si vede come tale contratto possa contrastare il dualismo tra occupati stabilmente e precari, dato che esso aggiungerebbe con evidenza un dualismo in più, tra vecchi e nuovi assunti. Ma l’obiezione di fondo è un’altra. Per quanto tempo ancora continueremo a inventarci contratti di lavoro flessibili, aggiungendo l’uno all’altro e a sommare leggi su leggi senza determinare alcun effetto sulla situazione reale? In questo modo la stessa legge-Fornero sul mercato del lavoro verrebbe modificata in peggio. Se quella legge aveva un merito, esso stava nell’investire decisamente sul contratto di apprendistato come strumento prioritario di accesso dei giovani al lavoro. Su questo si dovrebbe lavorare, mettendo mano agli strumenti più efficaci, in accordo con le Regioni che funzionano o surrogando quelle (molte) che non funzionano. Per il resto per favorire la buona occupazione gli strumenti decisivi sono altri, a partire dagli interventi per contrastare la recessione e riavviare uno sviluppo sostenibile. L’unica misura efficace di contrasto alla precarietà consiste nel portare a sistema robusti incentivi fiscali, per ridurre il costo delle assunzioni a tempo indeterminato. Il resto è acqua fresca. Anzi si rischia di fare danno ulteriore. L’altro punto di forte dissenso riguarda le relazioni contrattuali. Sorprende che il documento Monti contenga una esaltazione acritica di quella norma voluta dal governo Berlusconi in articulo mortis (l’art.8 della legge n.138/2011) che non ha precedenti in nessun Paese civile, la quale consente con contratti aziendali di derogare alle discipline previste dai contratti nazionali e persino dalla legge. Il tutto naturalmente in nome della buona flessibilità, anzi della mitica flexsecurity. Tale norma, che il semplice buonsenso riformista suggerirebbe di abrogare, viene addirittura definita «norma chiave» da sostenere «mediante guidelines». Ma per favore, anche qui lasciamo perdere. Certe idee bislacche sulla differenziazione territoriale dei diritti sociali di fondo meglio lasciarle alla Lega: si addicono più ai rutilanti leghisti che agli algidi tecnici montiani.
da L’Unità