I meno 58 mila in dieci anni – studenti iscritti alle università italiane, il segno del crack formativo di un paese che arranca – vanno spiegati nel dettaglio. E, facendo emergere i dettagli, si scopre che il futuro prossimo dell’istruzione superiore definirà impietosamente “sommersi” e “salvati”. E sì, perché ci sono atenei italiani che calamitano matricole, inaugurano corsi di respiro internazionale, ospitano in collegio studenti stranieri meritevoli, vedono crescere i finanziamenti “per merito” (il ministro Profumo nei suoi 14 mesi di mandato ha spinto su questa differenziazione dei denari). Altri atenei, undici sui 55 pubblici, sono a un passo dalla chiusura.
La Cà Foscari di Venezia, la prima business school d’Italia, trenta lingue insegnate, il giorno dopo la pubblicazione del tragico dossier del Consiglio universitario nazionale ha fatto sapere che a Dorsoduro negli ultimi dieci anni le immatricolazioni sono cresciute del 36,61 per cento (quando la contrazione generale è stata del 17 per cento). Oggi gli immatricolati al primo anno, a Venezia, sono 6.194 e 19.199 gli iscritti. Negli ultimi tre anni, che poi rappresentano il picco della crisi universitaria italiana, i numeri veneziani sono ancora migliori. I corsi per le lingue orientali, per esempio, sono stati presi d’assalto. Fra i motivi che hanno consentito le performance di Cà Foscari c’è il potenziamento
delle borse di studio per assegni di ricerca dati ai giovani talenti. La rarefazione delle borse di studio di Stato per gli studenti meritevoli e per i ricercatori sta regalando, invece, la fuga di massa dalle università registrata dal Cun.
Anche l’Alma Mater di Bologna ha segnalato con soddisfazione i suoi numeri: incremento delle immatricolazioni dell’1 per cento negli ultimi tre anni e del 6 per cento negli ultimi cinque. Sono aumentati del 10 per cento, e questo a carico dell’ateneo, i fondi destinati al diritto allo studio. Fra le 55 pubbliche c’è un mazzo di università di prestigio, quasi tutte al Nord, che anche “sotto crisi” denunciano numeri positivi. Continuano ad attrarre studenti il Politecnico di Torino e il Politecnico di Milano (Milano, però, ha un problema di spese troppo alte). Poi l’Università di Trento, Roma Tor Vergata, Ferrara, la Statale di Milano, Verona e Padova. I migliori atenei, spesso sono anche i più costosi.
Ci sono – l’altra faccia del paese – mastodonti in rosso strutturale come La Sapienza di Roma e la Federico II di Napoli. Atenei storici in crisi come Urbino. E alcune università a rischio fallimento. Foggia, Cassino, la Seconda di Napoli e Sassari pagano buste paga superiori all’80 per cento delle entrate. Rischiano il default, infine, le due università di Siena (e lo scandalo Montepaschi potrà solo aggravare la situazione), l’Orientale di Napoli, Macerata: tutte hanno superato il limite consentito di indebitamento, il 15 per cento. I rifinanziamenti non sono assicurati.
A fine crisi, qualche ateneo italiano non ci sarà più, altri invece continueranno a formare (a caro prezzo) studenti di classe, i dirigenti di domani. E la forbice della conoscenza tra chi può e chi non può, in Italia, si spalancherà
Da Repubblica.it