«Bersani e Renzi? Insieme vincerebbero» aveva detto Roberto Benigni quando, in piene primarie, forse nemmeno lui sperava di vederli insieme. La “foto di Firenze” scattata ieri in un teatro strapieno, palesemente inadeguato a contenere l’entusiasmo del Pd pride, è qualcosa di più del profumo di vittoria alle elezioni. E rende più concreta la certezza che Pier Luigi Bersani ha consegnato alla platea quando ha detto che «questo partito, che non ha nomi sul simbolo, fra dieci, venti, trent’anni sarà ancora qui».
Ieri all’Obihall tra i due leader (arrivati insieme in auto elettrica) non è nato un ticket, il due di coppia non si ripeterà in campagna elettorale dove d’ora in poi ognuno andrà dove serve, ma l’evento sigilla l’esistenza di un Pd forte, largo, in salute (nonostante i sondaggi in calo), capace di lasciarsi alle spalle le tossine per lavorare in una sola direzione.
Più comizio elettorale quello di Bersani, («il prossimo presidente del consiglio» lo ha salutato il sindaco di Firenze), più discorso sul futuro quello di Renzi, che ha usato la sua Firenze come metafora per parlare del paese e il palcoscenico del teatro per parlare ai suoi, a conferma che la sua battaglia politica è solo accantonata.
«Se avete costruito castelli in aria il vostro lavoro non è perduto» ha detto citando il poeta e filosofo americano Henry David Thoureau, l’unica citazione in un discorso più rilassato che emozionato. E, parlando ai suoi, ha aggiunto: «Non abbiate paura di chi non la pensa come voi».
«Sono stato accusato di non andare sempre nelle sedi istituzionali – ha detto riferendosi alla sua discussa visita ad Arcore – diciamo che la prossima volta sarà più facile trovare il presidente del consiglio» ha detto invitando Bersani a Firenze a firmare il libro d’onore a Palazzo Vecchio. Poi gli ha regalato il Marzocco, il leone simbolo del potere popolare della città che ospitava l’evento.
Tutte le immagini che si sono alternate sullo schermo (dai Google Glass di Sergei Brin al Balotelli che abbraccia la madre commossa in un perfetto rovesciamento semantico della mossa berlusconiano) servivano a trasmettere quell’idea di futuro cui il sindaco di Firenze ha legato l’identità politica costruita con la campagna per le primarie.
Un’eredità che non è perduta.
Più concreto (e in bersanese doc) il discorso del segretario del Pd, che «come omaggio a Matteo che se lo merita» ha aperto arrotolandosi le maniche della camicia. Una concretezza resa plasticamente evidente da due espressioni care al leader dem, il richiamo alla «nostra gente» (che non sentiremo mai in bocca a Renzi) e al «qualcosa si può fare» contro la campagna elettorale di promesse che gli altri leader in campo (tutti, compreso Monti) sbattono in faccia agli elettori.
Nel discorso di Bersani c’è spazio anche per due piccole critiche “interne”, all’«eccesso di localismo» all’origine del caso Montepaschi e all’abitudine di alcuni consiglieri lombardi del Pd di «fare la spesa con i soldi pubblici». «Moralità e lavoro saranno le due parole della prossima legislatura» ha spiegato il premier in pectore, declinazioni di uno slogan, “L’Italia giusta”, che anche Renzi ha mostrato di aver apprezzato. Poi le parole d’ordine della campagna elettorale del Pd (dagli investimenti pubblici degli enti locali da sottrarre al patto di stabilità alla manutenzione del patrimonio scolastico, dalla Maastricht della fedeltà fiscale alle unioni civili alla tedesca per le coppie gay) e un po’ di orgoglio nella rivendicazione delle lenzuolate, contro le banche e con un pensiero ai consumatori.
L’Obihall applaude, e tanto, quando Bersani conclude e gli abbracci con Renzi continuano. Intorno al Rottamatore anche gli ex nemici Enrico Rossi, il presidente della regione, Andrea Manciulli, il segretario del Pd toscano, e Patrizio Mecacci, segretario di quello locale, che in piene primarie disse: «In caso di vittoria di Renzi non sono così sicuro di rimanere nel Pd». Sono passati due mesi, sembrano secoli.
da europaquotidiano.it