La campagna elettorale mostra tutta la difficoltà non solo di discutere ma perfino di mettere a fuoco la questione su cui il Paese si sta giocando tutto: la «cosa» da cui dipendono tutte le altre, Imu compresa. Parlo della ridefinizione del «rapporto nazionale-internazionale», ovvero del rapporto Italia-mondo. Qui sta il grande cambiamento, che è in atto, e che è di natura storica. Ricordiamoci che l’Italia era cresciuta e si era affermata come media potenza mondiale grazie al ruolo di cerniera che aveva svolto nella strategia della guerra fredda, e quindi, sostanzialmente, in base a un rapporto speciale con gli Stati Uniti.
Questo è cambiato. Il futuro della Penisola dipende adesso dal nostro rapporto con la costruzione della Comunità europea. Una costruzione travagliata e percorsa da difficili problemi, compreso quello di non subire passivamente l’egemonia monetaria tedesca, ma che rappresenta la potenza necessaria minima per fronteggiare il potere della finanza mondiale e perché gli europei con la loro civiltà possano tornare ai vertici dello sviluppo mondiale.
È evidente quindi che la scelta che sta di fronte agli elettori il 24 febbraio è di natura costituente. Essa è simile per certi aspetti a quella che il 18 aprile del 1948 vide la vittoria «necessaria» della Dc. E perché dico necessaria? Perché in quel momento storico la Dc garantiva l’occidentalizzazione dell’Italia e la pace civile. Io c’ero ma il «soviettismo» di noi comunisti alludeva a un’altra storia e non dava allora questa fondamentale garanzia. Ecco perché trovo deprimente il dibattito elettorale che si svolge sui media. Mi si dirà che si parla di programmi. Benissimo. Ma che senso hanno le promesse programmatiche se restiamo ai margini dall’Europa e ci mettiamo nella penosa condizione di non contare più niente?
Vengo così al punto, che io definisco così. Che succede se il Partito democratico non vince le elezioni? Ecco una bella domanda che gli italiani dovrebbero cominciare a porsi. È una strana domanda, che però è posta dalle cose. Riflettiamoci bene. Se le elezioni non le vince il Pd le vincerà un altro. Ma chi? Berlusconi? Ma l’organismo italiano (la società e l’unità dello Stato) può sopravvivere a una vittoria della destra? Me lo chiedo perché noi siamo a quel passaggio di cui ho detto. È evidente che il ritorno di Berlusconi (a parte tutto ciò che di ignobile riporterebbe a galla) isolerebbe drammaticamente l’Italia dall’Europa, ci coprirebbe di disprezzo e aprirebbe anche grossi problemi di sovranità del Paese. Ricordiamoci che il potere non è più solo un fatto nazionale ma si definisce sempre più nella sua relazione con lo scenario internazionale e con le mutazioni che esso sta subendo. Noi, non conteremo più niente e diventeremmo solo il luogo della compravendita di ciò che resta di un grande patrimonio produttivo. Fantasie? Uno scenario simile non è credibile? In effetti sembra anche a me.
Ma poi vedo i processi dissolutivi in atto. Vedo i voti per Grillo e per Ingroia che sono tanti. Vedo l’indifferenza per il dramma della povera gente. Vedo le sparate di Maroni, l’alleato principale di Berlusconi, un naufrago politico che tuttavia se vince in Lombardia può creare problemi molto seri di tenuta del Paese. Certo. C’è molta farsa nel pensare di dividere il Lombardo-Veneto dall’Italia (come ai tempi di Radetzky) e al ritorno dei Borboni a Napoli. Fa ridere. Ma che succede se una grande forza popolare e nazionale non vince le elezioni? Questo è il punto su cui rifletto. La novità è che nel mondo e nell’Italia di oggi questa forza «necessaria» è il Pd. C’è poco da fare. Si è aperto un problema geo-politico e non per caso a un vecchio comunista come me sono tornate in mente le elezioni del 1948.
Mancano quattro settimane al voto. Pongo in modo così brutale questa questione del ruolo storico che il Partito democratico è costretto ad assumere non perché io sia pessimista o perché ritenga debole il nostro discorso elettorale. Vorrei solo alzare l’asticella della sfida. Cosa pensa la classe dirigente italiana di questo passaggio d’epoca? Vuole giocare ancora su due tavoli? Sarò un ingenuo ma mi sembra incredibile che persone serie come quelle che si muovono intorno al prof. Monti e che frequentano ambienti come la Comunità di Sant’Egidio non si rendano conto che è finita un’epoca. Non è solo questione di giustizia. È che non funziona più l’idea di un rilancio dello sviluppo basato sui consumi degli individui in società atomizzate, finanziati a loro volta non dalla crescita della economia reale ma dal debito, e quindi dalla crescita delle rendite finanziarie. Questo è il fatto reale che ci interroga. Un grande fatto.
Il mondo è nuovamente a una svolta. È saltato il circuito consumo-rendita-debito. Piaccia o non piaccia. Bisognerà cominciare a investire sul lavoro, sull’intelligenza umana e sui nuovi bisogni collettivi. Ecco il fatto, un grandissimo fatto. Perché allora gli amici di Monti vogliono impedirci di vincere le elezioni? Perché la loro strategia è «tagliare le ali». Che stupidaggine. La sinistra di Vendola non è come il mondo di Cosentino. E come pensano di governare la necessaria riforma delle società europee: facendo del sindacato il nemico principale? Se è così, vuol dire che non hanno capito la posta in gioco e le forze in campo. È meglio per tutti che vinciamo noi.
da L’Unità