Fece bene quando uccise Matteotti, incarcerò gli oppositori? Quando inviò l’esercito in Etiopia, ordinandogli di usare i gas asfissianti a scopo di sterminio? Quando entrò in guerra accanto a Hitler, e non per evitare una vittoria tedesca troppo vasta ma convinto da sempre che urgeva vendicare l’oltraggio del ’14-18? Oppure fece bene perché seppe governare accentrando tutti i poteri, reintroducendo la pena di morte, soggiogando l’amministrazione della giustizia? Quando si incontra un politico provocatore, che consapevolmente sceglie il giorno in cui si ricorda la Shoah per inquinare il consenso antifascista da cui è scaturita la Costituzione, è sempre la seconda domanda quella che conta, che aiuta a capire, e la seconda domanda purtroppo è mancata.
Ma in fondo quel che vorremmo sapere lo sappiamo già, perché Berlusconi non è caduto dal cielo: né oggi né nel ’94. Perché quel consenso è stato gracile sempre, a dispetto delle commemorazioni, e lui quest’oscurità italiana la sa, l’attizza, ne fa tesoro. Non aveva mai parlato in questo modo del fascismo, ma sul Regime, e sulla Resistenza, ha già detto in passato cose sufficienti. Ha già detto che Mussolini «non ha ammazzato nessuno; mandava la gente a far vacanza al confino» (settembre 2003). Ha già detto che la Costituzione fu scritta «sotto l’influsso di una fine di una dittatura, e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come un modello» (7-2-2009). Che è congegnata in modo da rallentare le decisioni dei governi, e dilatare proditoriamente il potere giudiziario. Il suo giudizio sull’autonomia della magistratura non è senza rapporto con il suo sguardo su Mussolini ed è chiaro da tempo: l’autonomia è patologica, e i magistrati fedeli ai dettati della Carta sono «mentalmente disturbati, antropologicamente diversi ». Affinché non ci fossero equivoci sulle sue preferenze aveva decretato, il 26 gennaio 2004: «Il fascismo è stato meno odioso dell’odierna burocrazia dei magistrati che usano la violenza in nome della giustizia».
Berlusconi non è il primo né l’unico in Europa a rompere il consenso costituzionale che ha visto rinascere le democrazie nel continente, e le ha spinte a unirsi in una semi-federazione. Da quando quest’ultima si è allargata a Est, molti Stati che avevano patito l’impero sovietico sono giunti a conclusioni simili: il comunismo era il vero nemico, più delle dittature di destra. Ricordo dissidenti di rilievo, negli anni del golpe di Jaruzelski in Polonia, che ne erano convinti. Alcuni erano sedotti da Pinochet: spietato con gli oppositori, ma paladino di dottrine liberiste, filo- occidentali, che avevano resuscitato l’economia cilena. Le attese del-l’Est erano economiche più che politiche. La regressione fascistoide di Viktor Orbán e del partito Fidesz in Ungheria (a suo tempo un partito di dissidenti libertari oltre che liberisti) mette in pratica quel fascino di Pinochet. Orbán è uno dei vicepresidenti del Partito popolare europeo: una formazione che è andata sempre più corrompendosi, da quando ha accolto – dimenticando De Gasperi o Adenauer – capi politici come il Premier ungherese o l’ex Premier italiano.
L’Europa unita non ha l’ardire di dare il nome di costituzione alle proprie leggi fondamentali, ma la sua Carta dei diritti e il Trattato di Lisbona hanno valore costituzionale (se costituzionali sono le leggi che tengono insieme i cittadini). Quando l’articolo 2 del Trattato dice che «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani», comprese le minoranze, è evidente il riferimento alle dittature d’Europa. Quando la Carta
dei diritti, non meno vincolante giuridicamente del Trattato, afferma che saranno rispettati «i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali (…) e dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali », è lo spirito della Resistenza che convoca e suggella. Berlusconi non riconosce le tradizioni costituzionali italiane, e di conseguenza neppure quelle dell’Unione europea. Si dice «migliore amico di Israele», e questa è per lui la patente antifascista decisiva: Israele dovrebbe essere il primo a negargliela.
Al pari di Orbán, e di molte destre europee, l’ex Premier usa far leva sulla democrazia, per sgretolarla dal di dentro. Un’operazione tanto più facile, in un paese dove il confine fra estrema destra e conservatori è sempre più labile. Non esiste da noi una forte destra repubblicana come in Germania, né esiste la tradizione gollista che per anni, in Francia, ha rifiutato ogni patto con Le Pen. L’Italia politica onorò fino all’ultimo il generale Rodolfo Graziani, condottiero della guerra d’Etiopia, e negli anni ’80-90 giocò a riabilitare il fascismo e a declassare l’antifascismo, comunista o azionista. Disinformata, gran parte del suo popolo s’è confusa, smarrita. Una vera
politica della memoria
– così la chiamano in Germania – da noi non c’è mai stata. È mancata soprattutto a destra: l’unica forza in grado di capire e curare efficacemente le
proprie
escrescenze estremiste. Da sola, la sinistra non le placa: le attizza.
L’idea che Berlusconi si fa della democrazia ha acuito questa confusione. A suo parere è la sovranità del popolo, e lei sola, a garantire la democraticità di uno Stato. A che serve tutta un’impalcatura di leggi, di contrappesi? Se il popolo (in realtà non tutto: la maggioranza) premia partiti e persone che avversano la Carta o violano la legge, la Costituzione e la giustizia dovranno sottomettersi: tale è il verdetto delle urne. E assoluta è la sovranità dell’eletto; nessun potere può esistere accanto a lui o sopra. Precisamente contro questa perversione della sovranità democratica fu inventata l’Unione europea, dopo secoli di guerre tra assoluti sovrani nazionali. Sia detto per inciso: l’invenzione nacque proprio in quell’isola di detenzione, a Ventotene, ribattezzata dieci anni fa
luogo di vacanza.
Da quando ha fatto irruzione nella vita politica italiana, Berlusconi ha scelto l’anticomunismo come arma prediletta. Era appena finita la guerra fredda, e non poche destre europee si ritrovarono d’un tratto orfane del nemico esistenziale. Meglio tenere in vita il morto, pensò il fondatore di Forza Italia: serviva a guadagnar voti, additando pericoli totalitari non esistenti, e a bloccare il doppio risanamento civile che Falcone e Borsellino avevano iniziato in Sicilia contro la mafia, e che Mani Pulite tentò a Nord. Fu rapido, il cortocircuito. Berlusconi associò magistrati e comunisti, e ambedue vennero accusati di sovversione antidemocratica.
I dispotismi europei del secolo scorso sono nati con gli stessi metodi, falsificando la storia e attizzando i risentimenti che le grandi crisi economiche, mal governate, suscitano sempre nei popoli immiseriti. Berlusconi scimmiotta Mussolini in piena coscienza: nessuna delle sue parole è – come sembra credere Mario Monti – una malaccorta «battuta infelice ». In cuor suo sa perfettamente che in tempi bui cresce la sete dell’uomo forte, delle dittature. Se la destra e il centro non vedono all’orizzonte nient’altro che sbadate follie, vuol dire che non sono del tutto preparate a un’argomentazione seria sul pericolo che incombe: in Grecia, o in Ungheria, o in Italia. Che hanno dimenticato come ci sia sempre del metodo nelle follie, e come la preparazione sia tutto, in politica come nella vita di ciascuno.
Da La Repubblica