attualità, politica italiana

Il requisito minimo della credibilità, di Luca Ricolfi

Ieri su “La Stampa” abbiamo pubblicato i dati sul grado di rinnovamento dei partiti: quanti giovani, quante donne, quanti nuovi parlamentari. Oggi ci occupiamo invece di pulizia delle liste.
Prima di presentare i dati, però, devo dire qualcosa sul concetto di «pulizia».
Personalmente sono dell’idea che, salvo casi eccezionali (qualcuno ricorda il caso Tortora?) un partito non dovrebbe presentare nemmeno un candidato che abbia o abbia avuto problemi con la giustizia, a meno che la sua vicenda si sia risolta con un’archiviazione o un’assoluzione senza ombre. E’ quel che succede in qualsiasi Paese di cultura occidentale, dove basta poco per costringere i politici al passo indietro. E’ una questione di opportunità, di cautela e di decenza.
A questa mia posizione ultra-severa, tuttavia, si può obiettare che talora gli indagati di oggi non vengono condannati domani, e in qualche caso non vengono nemmeno rinviati a giudizio. Inoltre, nulla assicura che la magistratura italiana eserciti lo stesso livello di attenzione e vigilanza verso tutti i partiti. Ad esempio è possibile che i partiti al governo siano monitorati con più attenzione di quelli all’opposizione, o che alcuni pubblici ministeri siano guidati anche dalle loro preferenze politiche. Se si accetta questa obiezione, mettere nello stesso calderone tutti – indagati, imputati, condannati a qualsiasi livello – può essere discutibile, nel senso che rischia di restituirci una immagine distorta del grado di pulizia delle liste.
Morale. Resto dell’idea che un partito serio non dovrebbe candidare nessuno su cui esistano anche solo dei dubbi, e in questo senso trovo giusto che ogni vicenda giudiziaria dei politici sia raccontata dai media fin dall’inizio. Ma nello stesso tempo penso che, per avere un’idea del grado di pulizia delle liste, sia più corretto considerare solo i casi più seri. Dove per «seri» intendo i casi in cui il politico abbia raggiunto almeno lo stadio di imputato o rinviato a giudizio. In breve: per entrare nel nostro conteggio dei politici «birichini» (o impresentabili, se preferite) non basta essere indagati; e per starne fuori non basta che il proprio procedimento si sia fermato per prescrizione, per patteggiamento, o perché è scattata qualche immunità, o perché è intervenuto un vizio di forma. Insomma, per noi sono seri tutti i casi in cui è iniziata l’azione penale e non è subentrato un proscioglimento o un’assoluzione piena.
Ed ecco i risultati (i dettagli a pagina 2-3), che forniamo come un primo contributo di conoscenza, correggibile e ampliabile, vista l’impossibilità di un libero accesso al casellario giudiziario, che contiene la maggior parte delle informazioni sulle vicende penali dei cittadini (su questo vedi l’articolo di Paolo Festuccia a pagina 2). Su 1098 candidati che hanno elevate probabilità di essere eletti, i birichini risultano 18 (ma salirebbero a quasi 100 se, come nelle inchieste del «Fatto Quotidiano», venissero inclusi anche i semplici indagati e i politici che hanno basse probabilità di essere eletti). Le liste da noi considerate sono le nove più importanti, vista la difficoltà di prevedere gli eletti delle liste minori. Su nove liste, quelle che risultano perfettamente pulite sono cinque: Movimento Cinque Stelle (Grillo), Scelta civica (Monti), Sel (Vendola), Rivoluzione civile (Ingroia), Fratelli d’Italia (Meloni e Crosetto), Fli (Fini). Quelle che risultano più o meno inquinate sono quattro: Pd (4 casi, pari allo 0,8% di eleggibili), Lega (3 casi, pari al 4,8%), Pdl (9 casi, pari al 5%), Udc (2 casi, pari al 7,7%).
Che dire?
Innanzitutto, possiamo notare che le liste sono migliori, o meno indecenti, di come si prospettavano anche solo una decina di giorni fa. La pressione dell’opinione pubblica e dei media per escludere gli impresentabili e rinnovare il ceto politico qualche effetto l’ha ottenuto. E tuttavia restano ancora diverse ombre, e non mancano le sorprese.
Sul versante del rinnovamento, colpisce il fatto che – dopo aver minacciato di non ricandidare quasi nessuno – il Pdl abbia il massimo di vecchie glorie (80% di parlamentari ricandidati), e un numero irrisorio di giovani (8%, contro il 72% del movimento di Grillo).
Ma colpisce, anche, la composizione delle liste di Ingroia e di Monti. Per quanto riguarda Ingroia, la sua Rivoluzione civile presenta il minimo di giovani (3,4%), e una sfilata di vecchi politici che senza la zattera offerta dalla nuova lista mai sarebbero rientrati in Parlamento: tra essi i segretari dei due partiti comunisti, (Ferrero e Diliberto), il leader della moribonda Italia dei Valori (Di Pietro), il leader degli ormai dimenticati Verdi (Bonelli). Non stupisce che, vista la compagnia, alcuni fra i promotori più autorevoli della lista Ingroia abbiano deciso di fare un passo indietro.
Per quanto riguarda Monti e le liste a lui collegate (Udc e Fli) può forse non stupire la relativa assenza di giovani (9,3%) e di donne (15,7%: solo la Lega ne ha di meno), vista la composizione del suo governo, ricco di anziani e povero di donne. Non si può non notare, però, che ad Enrico Bondi – il terribile tagliatore di sprechi e di candidati – era stato affidato il compito di garantire la qualità delle candidature di tutta la coalizione del premier, compresa l’Udc. E invece che cosa scopriamo? Che il rigorosissimo filtro di Bondi ha lasciato tranquillamente passare due birichini, ovvero Giovanni Pistorio e Lorenzo Cesa, il primo condannato (dalla Corte dei Conti) per danno erariale, il secondo condannato per corruzione aggravata (e salvato solo da un vizio di forma e successiva prescrizione). Casini, che non perde occasione per proclamare sé stesso e il suo partito alfieri della «buona politica», qualche sera fa, intervistato da Lucia Annunziata, ha giustificato la scelta di candidare Cesa dicendo che «chi lo conosce lo apprezza» e che «sul territorio ciascuno di noi è quotato sui voti che prende» (dunque Cosentino è un ottimo candidato? e male ha fatto Berlusconi ad escluderlo?). Una difesa non molto diversa da quella che a suo tempo lo stesso Casini fece di Totò Cuffaro, poi finito in carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Allora aveva anche annunciato pubbliche scuse in caso di condanna di Cuffaro, ma le stiamo ancora aspettando.
Non sono fra quanti pensano che avere liste pulite, rinnovate, piene di giovani e di donne, sia di per sé una garanzia di buona politica (conosco parecchie ragazze incensurate che, come parlamentari, sarebbero un disastro). Anzi penso che sarebbe ora che l’opinione pubblica cominciasse a preoccuparsi soprattutto della qualità dei programmi e della competenza dei candidati, e non solo di inseguire vaghe aspirazioni di palingenesi della politica. E tuttavia mi pare che quello di non avere vicende penali alle spalle sia davvero un requisito minimo, giusto, ovvio, che nessuno dovrebbe mettere in discussione. E molto mi colpisce che l’unica lista che non ricandida vecchi politici, è piena di giovani, ha quasi il 50% di donne, e non ha nemmeno un inquisito fra le sue fila sia quella di Beppe Grillo, ossia precisamente la lista i cui programmi meno mi convincono. Come se rinnovamento della politica e credibilità dei programmi fossero due pianeti distinti e lontani, fra cui è giocoforza fare una scelta secca. Un altro indizio, ai miei occhi, del fatto che il rebus italiano – il sogno di una politica credibile nei programmi e rinnovata nelle persone – non ha ancora alcuna soluzione.
Da lastampa.it