La condizione di lavoro in Italia peggiora da trent’anni, il Paese è diventato più ingiusto. La mancanza di politiche per uno sviluppo equilibrato e per un’occupazione sana e di qualità è stata ed è la ragione principale delle profonde difficoltà economiche e delle insopportabili diseguaglianze che stiamo vivendo. I precari, i giovani e le donne che si affacciano sul mercato, sono le vittime di questa situazione che presenta processi di degenerazione, una minaccia alla nostra convivenza civile e democratica.Il senso di ingiustizia, di abbandono che provano i lavoratori, chi cerca un’occupazione, l’afasia crescente di chi non ce la più nemmeno a lottare, a volte anche la perdita di speranza, sono i segnali preoccupanti che la storia di questi anni di crisi ci ha raccontato e ci rappresenta quotidianamente.
Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro e di ingiustizie? Il tasso di disoccupazione reale è ormai prossimo al 12%, considerati i lavoratori in mobilità. Oltre il 30% dei giovani non trova lavoro, le donne non si iscrivono nemmeno più alle liste di disoccupazione tanto è impossibile trovare un posto. È stato calcolato che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha uno stipendio che è 430 volte quello medio di un suo operaio. Il manager ha incassato nel 2011 una retribuzione complessiva annua di 17milioni di euro, mentre un cassintegrato di Mirafiori prende 850 euro al mese. Nel 2009 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva un reddito 11.490 volte superiore a quello di un lavoratore di Pomigliano d’Arco. Il rapporto tra le retribuzioni medie dei manager e dei lavoratori dipendenti era di 45 a 1 nel 1980, è salito a 500 a 1 nel 2000. Secondo il Sole24Ore (non la Pravda…) nel 2011 la Borsa di Milano ha perso il 25%, ma la retribuzione media annua dei top manager italiani è cresciuta da 3 a 3,5 milioni di euro. Questo è il mondo in cui viviamo, si potrebbe osservare, e non si può fare troppa demagogia, non ci si può sempre scandalizzare. L’ingiustizia che patisce il lavoro in Italia è testimoniata dalla dinamica della distribuzione della ricchezza nazionale: la quota di pil destinata a rendite e profitti continua a crescere mentre quella per i salari precipita. La percentuale di pil indirizzata ai profitti è salita dal 23% del 1983 al 31% nel 2005, per i salari invece si è partiti dal 76% per scendere al 68% e oggi è ancora inferiore. Il sociologo Luciano Gallino ha stimato in 250 miliardi di euro all’anno la ricchezza uscita dai salari a favore dei profitti. Ancora: secondo la Banca d’Italia circa il 10% della popolazione italiana controlla oltre il 50% della ricchezza nazionale. Ecco come siamo messi, oggi gennaio 2013, a un mese dalle elezioni politiche. Possiamo andare avanti così?
La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 è diventata una prolungata scossa sistemica dell’intera economia mondiale, in cui è stata coinvolta direttamente e drammaticamente l’Italia. La nostra economia è stata travolta da una profondarecessioneche,alimentata anche da speculazioni e manomissioni finanziarie, si è rivelata non più una semplice crisi momentanea, che arriva e dopo un anno o due se ne va, ma una tempesta continua, imprevedibile nella sua durata e nella sua estensione. Questo terremoto nasce dal fallimento delle politiche neoliberiste che da trent’anni ci opprimono e che proprio nel momento più drammatico del disastro riescono a trovare freschi predicatori, nuovi sostenitori, fedelissimi adepti i quali, anziché finire sul banco degli imputati come meriterebbero, “scoprono” nei debiti sovrani, nell’insufficiente produttività e nella rigidità del lavoro, nell’eccessiva protezione sociale dei sistemi di Welfare, negli sprechi dello Stato o delle eventuali “caste” le vere cause della crisi. A fronte di questo ribaltamento della verità, la politica, la società, la cultura si adeguano, quasi tutti, tristemente all’elogio dei tecnocrati che, come conoscitori della tecnica, sono in grado di sostituirsi alle classi di governo, quelle politiche ma anche quelle imprenditoriali ormai poco affidabili, riducendo la democrazia, comprese le elezioni, a un semplice inutile esercizio. Viviamo, dunque, non una banale recessione economica, con la chiusura delle imprese e la crescita della disoccupazione, ma un cambiamento del capitalismo, del suo modo di pensare e di agire, sempre più individualistico, manageriale, socialmente irresponsabile, dotato di privilegi e retribuzioni impensabili, condizionato solo dall’andamento dei corsi di Borsa e dai capricci dei grandi azionisti, dei fondi e delle banche di investimento. Viviamo, anche in Italia, un passaggio dominato dall’allargamento delle ingiustizie, dall’alterazione intollerabile delle capacità di reddito tra chi sta sopra e chi sta sotto, con la cancellazione di diritti, contratti, interessi, regole di convivenza in fabbrica, in ufficio, a scuola.
In questo sistema, che nemmeno il fenomenale Obama è riuscito a ostacolare nonostante già la sua prima vittoria del 2008 fosse basata sull’impegno a tagliare le unghie ai nuovi predatori, il lavoro è stato ridotto a una semplice, secondaria, componente del processo economico. Il lavoro vale poco, sempre meno. Stiamo vivendo una regressione culturale, una deriva di cui il Paese non pare accorgersi nella sua drammatica gravità, siamo investiti da una bufera che cambia i termini della nostra democrazia, ma andiamo avanti, applaudiamo come dei cretini il bocconiano di turno o il manager campione di stock options come prototipi del sicuro successo. È in questa situazione che oggi e domani la Cgil, il più grande sindacato italiano, presenta il suo piano per il lavoro. Una proposta che evoca fin dal titolo altre emergenze sociali in altri periodi storici. Che Susanna Camusso e la sua organizzazione abbiano deciso di chiamare i leader del centrosinistra a confrontarsi su questa priorità assoluta è un segno di consapevolezza e di responsabilità verso il Paese. Anche se Mario Monti non riesce a comprenderlo. È proprio il caso di augurare buon lavoro.
L’Unità 25.01.13