La conferenza stampa che uomini del governo, dell’Ilva e dell’attuando Decreto (donne niente: è pur sempre acciaio) hanno tenuto ieri è stata delle più sciolte e lunghe. Dunque è tanto più significativo che alla fine ne sia rimasto una specie di vasto ronzio esausto, come di mosche in un bicchiere, mosche di domande e mosche di risposte. Anche i beneducati che fingevano di credere che una soluzione ci sia, e anzi sia alle porte sanno di girare in tondo. L’unica cosa data per certa, e dilazionata per pudore — «Ancora un minutino, signor boia…» — è la decisione di mettere in cassa integrazione fino a novemila operai. L’ennesima istanza dell’Ilva sul dissequestro, corredata dal proposito di devolverne il ricavato a salari e bonifiche, non ha un gran futuro, né un futuro qualunque. Resta il tentativo disperato di un “dissequestrino”: come con la ragazza madre del vecchio proverbio, che aveva fatto un bambino ma lo aveva fatto piccolo piccolo.
Ho posto un problema alle autorità di governo e di azienda. L’Ilva sostiene di non avere i fondi sufficienti al normale svolgimento della attività produttiva, e al pagamento degli stipendi, se non attraverso la vendita del materiale giacente, il cui valore presunto è di un miliardo. Questo vuol dire che l’azienda da cui dipende il 75 per cento del Pil della provincia di Taranto, il 40 per cento delle forniture nazionali di acciaio e più di mezzo punto del Pil italiano, ha un assoluto
bisogno, per pagare i lavoratori e ottemperare al risanamento, di incassare il prezzo di una merce prodotta in violazione della legge. In altre parole, salari, bonifica e continuità produttiva dipendono dallo smercio di un corpo di reato da parte dell’autore del reato. A un profano, una tal situazione finanziaria sembra assai vicina al fallimento. Paolo Bricco, sul Sole 24 ore di ieri, menzionava il rifiuto dei Riva ad attingere al proprio patrimonio, e spiegava che è la fortissima esposizione debitoria dell’Ilva nei confronti delle banche a protrarne l’agonia. Con diversa competenza Bruno T., uno dei due o trecento operai che presidiavano la propria fabbrica ieri fuori dai cancelli mentre due o trecento giornalisti la tenevano da dentro, diceva: «Una pompa di benzina qui a Statte aveva uno sversamento a mare e l’hanno chiusa subito: senza uno straccio di decreto». Demagogia, direte: una pompa di benzina non è la più grande acciaieria d’Europa. Appunto. In quei capannelli di operai chiedevo spiegazioni sui nuovi incoraggianti dati dell’Agenzia regionale per la prevenzione ambientale.
Ascoltiamo prima di tutto il responsabile dell’Arpa, Giorgio Assennato. «Un dato schiacciante è fornito dalle centraline di qualità dell’aria da settembre ad oggi: praticamente annullati i superamenti, il valore medio del pm10 è molto vicino a quello di un parco cittadino. L’effetto “miracoloso” è dovuto alla gestione del processo industriale imposta dai custodi, sia per i parchi minerali, sia per le cokerie: abbassamento dei parchi minerali, allungamento dei tempi di raffreddamento. Il tutto con una modesta riduzione annua della produzione, 7 milioni di tonnellate rispetto agli 8 massimi previsti dal-l’AIA. La prova sta nel fatto che nel 2009, quando ci fu un dimezzamento della produzione (4,5 milioni di tonnellate) l’inquinamento diminuì di poco, perché la gestione degli impianti era immodificata. Questi dati sono davvero impressionanti e in verità non sono graditi a nessuno: ad Ilva, perché dovrebbe ammettere la sua responsabilità nella gestione dei processi, a molti ambientalisti perché dimostrano la possibile ecosostenibilità dell’acciaieria». Chiedo a Cataldo Ranieri, operaio diventato famoso ma attento a non staccarsi dal gruppo (per esempio, a non accettare candidature): «I custodi non hanno avuto il tempo di attuare veri lavori, come la copertura dei parchi minerali o dei nastri, che esigono un impegno enorme: ha influito l’abbassamento dei parchi minerali (sono montagnole di minerali, che il vento “spolvera” in giro: vedete qui una foto dal rione Tamburi). Ma la cosa principale è che la presenza dei custodi giudiziari ha imposto all’Ilva di fare quello che dovrebbe fare per regola. Mettiamo che per svuotare un convertitore siano prescritti 4 minuti e tu lo faccia in 30 secondi. Immagina di versare birra in un bicchiere: se la versi velocemente, la schiuma cresce e finisce fuori. L’acciaio non è diverso dalla birra, a parte le conseguenze. Troppo spesso non c’è una manutenzione programmata: si interviene in extremis, e mettendo toppe. Con le macchine, e anche con gli uomini. Ecco che cosa è successo negli ultimi mesi: che tempi e metodi normali sono stati rispettati di più, e i risultati si sono visti. Oggi ci dicono, ed è la cosa più offensiva, che non siamo in grado di spegnere gli altoforni, che non garantiamo la sicurezza con le comandate: cioè che non sappiamo fare quello che facciamo da sempre».
A proposito del rispetto dovuto agli umani, c’è una notizia “minore”, ma importante come la riparazione a una vergogna. Massimo Battista, diventato anche lui noto per essere stato confinato, dopo tante tensioni in fabbrica e nel sindacato, in un circolo Ilva dismesso sul Mar Grande, “a contare le barche”. È stato reintegrato, non nella sua mansione di elettricista ma come manutentore ai rulli. I suoi compagni se ne rallegrano, ma qualcuno fa dell’umor nero: «Se hanno deciso di riprenderlo, vorrà dire che chiudono».
Da oggi in poi, si terrà il fiato sospeso. Le competenze, si dice, passeranno dall’Economia agli Interni. Interni e Difesa hanno una inclinazione peculiare per Taranto (al contrario del ministero della Salute, di cui la giudice Todisco deplora l’assenza nel contesto del decreto). Ieri Taranto è stata bloccata per l’intera giornata, per l’arrivo di un ministro, il quale non è qui popolarissimo, ma è pur sempre un ministro dell’ambiente, e Taranto è pur sempre la città in cui finora non è stato compiuto un solo atto rilevante di violenza da parte di lavoratori e cittadini. Se non sarà più così, nessuno potrà dire che non ci fosse stato il tempo di prevedere e prevenire.
Intanto il sindaco ha convocato un referendum consultivo sulla chiusura del-l’Ilva, o sulla sua durata senza l’area a caldo, o la sua continuazione così com’è. Il referendum comunale è solo consultivo, e può essere una buona cosa (superata, del resto) avere un conto più esatto dell’opinione dei cittadini. Ma non può bastare che si registri l’opinione dei cittadini di Taranto e non di Statte, la più colpita dopo il quartiere dei Tamburi, e di tanti altri comuni dai quali proviene il 70% dei lavoratori che l’aria dell’Ilva la respirano ogni giorno dentro. Del resto, a Taranto, salvi i militanti dell’una o dell’altra posizione definita, le persone, e gli stessi operai, non hanno tanto un’opinione quanto uno stato d’animo, esasperato e diffidente, e respinto da un estremo all’altro. Se si annunziasse la chiusura della fabbrica, le persone ne sarebbero spaventate come se se ne annunziasse la continuazione. Quanto al risanamento, fra le tante cose cui a Taranto si è smesso di credere, le promesse sono quelle cui si crede meno.
La Repubblica 24.01.13