Penso che il Pd vincerà le elezioni, ma la condizione è che il messaggio che mandiamo al Paese sia alto e forte. Semplicissimo nella sua drammaticità. Dobbiamo dire meglio che cosa è in gioco. I programmi sono poca cosa se si dimentica che 15 mesi fa eravamo sull’orlo di una autentica catastrofe. Incombeva sull’Italia il seguente rischio: fallimento finanziario dello Stato, fino a mettere in forse il pagamento degli stipendi; inevitabile commissariamento politico del Paese da
parte di una autorità straniera. E inoltre: drastica riduzione del tenore di vita e del tessuto produttivo; ulteriore spaccatura tra Nord e Sud; impotenza del sistema parlamentare a reggere il peso del governo, e, quindi, spinte crescenti verso scorciatoie autoritarie.
Questa era la situazione: qualcosa di paragonabile a una grande slavina che rischiava di travolgere l’intero edificio dell’Italia repubblicana. L’abbiamo fermata, e non sto qui a parlare dei nostri meriti. Ma resta il fatto che le elezioni si svolgono in questo quadro. È vero che lo stiamo dicendo e che da qui partono tutte le nostre proposte sul fisco, sulle riforme dello Stato, sul rilancio dello sviluppo e dell’occupazione. Ma quanto mordono se non diventa più chiara nella sua semplicità drammatica la scelta che sta di fronte agli italiani? Una scelta che certo non è paragonabile a quella che fece la mia generazione mezzo secolo fa (Repubblica o monarchia) ma è in qualche modo anch’essa una scelta costituente. È il problema di come voltare una pagina della nostra storia moderna. Non si tratta solo di chiudere il disastroso decennio berlusconiano. È da più di venti anni che l’Italia perde colpi, non cresce e arretra in tutti i campi. Siamo quindi di fronte al problema di una ricostruzione. Non possiamo più sfuggire alle necessità di ricostruire su nuove basi morali e civili un Paese le cui strutture sia economiche che statali non reggono alla sfida del processo di internazionalizzazione. Al centro di tutto c’è l’Europa. La sfida di non finire ai margini della formazione di una nuova compagine europea. Il che significa che sono cambiati i luoghi del potere e le sue logiche, che sono diventati anacronistici i vecchi blocchi sociali e i vecchi compromessi che hanno finora tenuto insieme il Paese. Se non è qualcosa di simile al problema che si pose all’ex Regno di Napoli all’arrivo dei piemontesi, poco di manca.
Ecco, è il tema delle elezioni. Ed è su questa base che io misuro il ruolo fondamentale del Pd e l’enorme responsabilità che pesa sulle nostre spalle. Stiamo attenti. Questa sfida non è indolore. Metà del Paese non la capisce e la scambia con la cattiveria della signora Merkel, mentre gran parte delle forze dirigenti la temono e in realtà non la vogliono affrontare. Perciò fanno «cabaret». Non c’è nulla da ridere sull’eterno ritorno di Berlusconi. Costui non è solo un vecchio «clown» che ripropone il suo solito repertorio e ripete le «gag» che un tempo facevano ridere. Il consenso costui lo sta ricercando – e in parte ritrovando – nella contraddizioni e nella difficoltà di questo arduo passaggio storico. È un cinico gioco. Invece di spingere il Paese a ritrovare le sue speranze nelle nuove possibilità di sviluppo che si possono cogliere solo a livello europeo, Berlusconi fa leva sulle rabbie e le sofferenze della povera gente colpita duramente dalla crisi e le mescola con le paure di quei ceti che pensano di difendersi rifugiandosi nel localismo delle piccole patrie, nel populismo e negli egoismi sociali. Ciò mi convince sempre di più che spetta al Pd rappresentare non solo il lavoro dipendente ma quel vasto mon- do delle imprese che rischiano e innovano.
Il problema è cruciale. La troppo bassa produttività del «sistema Italia» dipende da molte cose ma, tra queste c’è il peso di un capitalismo senza capitali che si organizza non sul mercato ma nei «salotti buo- ni» e nelle consorterie e che cerca la produttività nel taglio dei salari. Quando vedo che certi professori rischiano di regalare la Lombardia ai resti del leghismo, con la possibilità che le tre maggiori regioni del Nord possano unirsi in nome della follia di una secessione dall’Italia, viene voglia di rileggere le pagine famose di Gramsci sul «sovversivismo» delle classi dirigenti. Devo confessare certe mie illusioni. Al di là di tutte le riserve, avevo dato un grande significato all’operazione Monti. Lessi (e commentai sull’Unità) l’appassionato appello del prof. Riccardi a tutti i moderati, in nome di una ricostruzione del Paese. Detti grande peso agli appoggi del Vaticano e della Conferenza episcopale e ancora di più all’appoggio esplicito del Partito popolare europeo. Ci siamo, pensai. Ecco che di fronte al collasso anche morale della destra e alla disgregazione del partito di Berlusconi i moderati si impegnano finalmente a costruire anche in Italia una destra di tipo europeo. Ma finora, stando almeno ai sondaggi il risultato è deludente: Monti 15,Berlusconi 26. Dico questo non perché io pensi che Berlusconi vincerà. Ma perché le forze moderate di tipo europeo dovrebbero riflettere molto più seriamente sulle condizioni in cui si svolge la battaglia politica italiana. Quali sono le forze reali in campo? E quindi le alleanze possibili? Basti solo il fatto che la somma dei berlusconiani, dei grillini e di altre frattaglie che sono con- tro la europeizzazione dell’Italia si avvicina al 50 per cento. È impressionante.
Non c’è, dunque, nessuna esagerazione nel ritenere che il Pd rappresenta oggi il perno di ogni possibile alternativa democratica e che la sua forza è la sola garanzia che il Paese possa uscire dalle sofferenze della crisi e in positivo tornando a pensare a un futuro migliore. Siamo un grande partito di popolo, organizzato, con una larga base sociale anche di giovani, aperto al dialogo e all’ascolto degli altri. Non mi nascondo i nostri limiti e penso che siamo in ritardo rispetto alla necessità di ridefinire tante cose, e tra queste anche un profilo geo-politico dell’Italia di domani. Lo dico perché se noi possiamo tornare contare è perché siamo quella penisola dell’Europa che sta al centro del Mediterraneo e parla al mondo arabo e africano. Penso anche che dobbiamo cominciare ad avere un progetto di società senza di che è impensabile un’uscita dalla crisi di questa economia finanziaria.
Posso però concludere con qualche battuta più superficiale? Trovo ridicolo l’insistente tentativo del prof. Monti di spaventare i bambini dipingendo con orrore Nichi Vendola e Stefano Fassina. Si calmi. Trovo tristissima la decisione dei nostri critici più di sinistra di cancellare ogni parvenza ideologica per presentarsi alle elezioni dietro un simbolo in cui campeggia una solo parola: «Ingroia».
L’Unità 22.01.13