La cattiva notizia è che la crisi è ancora in corso e farà sentire ancora a lungo i suoi effetti. Quella buona è che sembra affermarsi la consapevolezza che politiche economiche eccessivamente restrittive rischiano di aggravarla. È questo il parere di molti economisti, tra i quali il premio Nobel Paul Krugman. Ultimo, in ordine di tempo, il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, il quale ha recentemente dichiarato che le politiche del rigore richieste agli Stati con i conti pubblici non a posto, hanno prodotto la più grave crisi recessiva che si ricordi.
Per l’Italia l’anno si preannuncia dalle prospettive tutt’altro che rosee. Le stime, già negative, sono state corrette al ribasso e non è escluso che si presenti la necessità di una nuova manovra di aggiustamento dei conti pubblici già nel primo semestre, se il quadro economico dovesse mostrare i segni di un ulteriore deterioramento.
Il prezzo della crisi è salato: disoccupazione, riduzione del valore dei redditi da lavoro e delle pensioni, diminuzione del potere d’acquisto, aumento della povertà. E più passa il tempo, più affiorano le conseguenze drammatiche, che non riguardano soltanto gli indicatori economici tradizionali, come il Pil o la produzione industriale, ma anche quelli che rappresentano il cruscotto sociale, come la povertà e l’aumento delle disuguaglianze.
La questione sociale emersa con la crisi, si presenta con un quadro allarmante, i cui tratti provengono dalle statistiche economiche ufficiali, ma anche, indirettamente, dalla crescita del numero di persone che, nell’ultimo anno, hanno acceduto al sistema solidale, istituzionale e non. Aumentano le indennità di disoccupazione o l’inserimento in regimi di assistenza sociale e le stesse organizzazioni caritatevoli e non governative evidenziano, in generale, un aumento della richiesta di servizi d’emergenza, quali la distribuzione di beni alimentari, le mense per i poveri o i ricoveri per i senzatetto.
Per il nostro Paese, la crisi sembra essere sempre meno di passaggio e sempre più strutturale. L’Istat traduce in cifre le parole: le famiglie povere sono 2,8 milioni (in crescita) e complessivamente sono oltre 8 milioni gli individui al di sotto della soglia di povertà.
Rispetto ad altri Paesi europei le famiglie italiane sono le più colpite dalla crisi e quelle costrette a fronteggiare livelli d’incertezza più elevati. Basti pensare che, nel momento peggiore, la riduzione dei redditi delle famiglie è stata del 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Nella maggior parte degli altri Paesi avanzati, invece, nonostante la contrazione del prodotto interno lordo, il reddito delle famiglie è cresciuto. È stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%). Questa dinamica coincide anche per quanto riguarda i trasferimenti sociali: nel 2007, la spesa sociale per la famiglia e per i bambini, per l’abitazione, per il sostegno delle persone in cerca di lavoro e per il contrasto dell’esclusione sociale, in Italia era inferiore al 2% del Pil, mentre nell’area Ue si attestava al 4,3% e a valori superiori al 5% in Francia e Germania.
Al momento, l’Italia sembra non avere riserve sufficienti per uscire dalle sabbie mobili. Servirebbero investimenti per sostenere l’offerta e una crescita delle retribuzioni per stimolare la domanda. L’aggiustamento dei conti pubblici sembra non bastare, almeno per il momento perché il Paese ha bisogno di recuperare terreno, sia sul fronte delle infrastrutture, che su quello delle retribuzioni. In un’ipotetica classifica degli stipendi, i lavoratori italiani si collocano solo al 23esimo posto, con circa 15mila euro l’anno, dopo Paesi come la Corea del Sud (28mila), Regno Unito (27mila), Svizzera (25mila), Usa (22mila), Germania (21mila), Francia (18mila) o Spagna (17 mila). Le retribuzioni sono inferiori del 17% a quelle medie dei Paesi Ocse, pari al 56% di quelle degli inglesi, al 71% di quelle dei tedeschi, all’83% di quelle dei francesi e all’88% degli spagnoli. Non che la vita costi meno. Al contrario, fatto 100 il costo della vita nei Paesi della zona euro, l’Italia è a quota 104.Ammodernare il Paese, investire in ricerca, stimolare le imprese anche intervenendo sull’accesso al credito: queste le leve per immettere nuova energia nel sistema e per uscire dalla crisi. Ma incrociare la ripresa potrebbe non essere sufficiente perché nel nostro Paese la “questione sociale” rischia di farci perdere il traino di Paesi che sembrano già mostrare i primi segnali d’inversione di tendenza.
Il clima di generale disagio che il nostro Paese sta vivendo, genera numerose domande, per le quali i cittadini attendono risposte. Domande “sociali” che necessitano risposte politiche nuove, in termini di equità e di riduzione delle disuguaglianze. S’impongono scelte di politica economica volte a rimettere in equilibrio l’asse sociale, oggi sbilanciato, e devono coinvolgere direttamente il nostro welfare. Un modello che ha rappresentato una storia straordinaria di progresso civile, che necessita però di un percorso di evoluzione e adeguamento ai cambiamenti che hanno interessato le società contemporanee. Un modello che va comunque tutelato, garantito ma anche ripensato, soprattutto nel momento in cui gli stessi meccanismi di protezione sociale soffrono a causa dell’impossibilità di continuare a finanziarli.
La questione sociale e l’adeguamento del modello di welfare rappresentano temi chiave intorno ai quali i partiti, alla prova del voto, devono misurarsi, perché è su di essi che si tracceranno le linee del nuovo modello di sviluppo post-crisi.
È proprio l’emergenza sociale a imporre nuove misure che non facciano più riferimento solo al Prodotto interno lordo quale indicatore dello stato di salute di un Paese, ma anche a un nuovo tasso di equità, capace di misurare il grado di ricomposizione delle fratture sociali ed economiche che sembrano oggi caratterizzare l’Italia. Non si tratta, cioè, soltanto di invertire l’andamento negativo del Pil, ma di accompagnarlo con una riduzione delle distanze economiche e sociali e con una nuova griglia interpretativa della società.
Nell’ambito delle politiche di welfare, la prospettiva della governance sociale dovrà necessariamente porre l’accento sulle ricadute dei programmi d’intervento e dei risultati che questi producono in termini d’impatto sul sistema economico. Un’impostazione, questa, in grado di produrre effetti positivi sulle politiche di contrasto alla povertà e sulle più generali politiche sociali. Resta da dipanare il nodo di come e soprattutto quanto il peso di questo sistema di welfare cadrà sulle spalle delle famiglie, che sembrano attori senza copione all’interno di una sceneggiatura ancora tutta da definire. Solo la politica adesso può dare risposte concrete, scegliendo con convinzione una strada piuttosto che un’altra. Perché il modo in cui verrà assemblato questo puzzle darà vita al modello economico e sociale del futuro per il nostro Paese.
L’Unità 21.01.13