«L’Italia è sulla buona strada, ma il cammino da percorrere è ancora tanto, soprattutto sul fronte della qualità della didattica». Andreas Schleicher, vicedirettore per l’educazione dell’Ocse, apprezza le ultime riforme del nostro Paese, «che hanno aumentato l’autonomia delle scuole e messo in moto un meccanismo di valutazione dell’istruzione primaria e secondaria di primo grado», ma secondo l’ideatore del ranking Pisa – la classifica che misura la preparazione degli studenti – «resta uno “spread” del sistema scolastico italiano, che ottiene risultati al di sotto del proprio potenziale».
L’Italia investe il 4,9% del Pil sull’istruzione, contro una media Ocse del 5,8 per cento. Troppo poco?
Non è una questione di scarsità di risorse, visto che oggi la spesa per studente in Italia è in linea con la media Ocse (circa 9mila dollari). Le nostre analisi mostrano che c’è un forte gap territoriale, con le regioni del Nord che si dimostrano più virtuose sul fronte dell’istruzione: se tutto il Paese si allineasse alle aree migliori, nel periodo di tempo necessario per realizzare questo obiettivo il Pil potrebbe aumentare di addirittura 5mila miliardi di dollari. Rovesciando la medaglia, ciò significa che risultati poveri sul fronte dell’istruzione sono equivalenti a una recessione permanente pagata a caro prezzo. Il vero motore che può rilanciare l’economia è il capitale umano. E un sistema educativo migliore potrebbe anche favorire la mobilità sociale che in Italia è molto bassa. A Shanghai, per esempio, la spesa per studente è la metà di quella italiana, eppure nei ranking Ocse-Pisa la Cina ottiene le performance migliori. Investiamo in linea con la media Ocse, ma perdiamo in efficienza. Come rimediare a questo gap?
Il tassello fondamentale sono gli insegnanti. L’Italia ha molti docenti, ma non li valorizza. La linea di fondo è chiara: la qualità di un sistema educativo non può superare quella dei suoi insegnanti e presidi e, proprio come le aziende, i sistemi scolastici di alto livello devono prestare grande attenzione al modo in cui selezionare e formare il personale. Per raggiungere questo obiettivo bisogna stabilire norme chiare ed esigenti per la pratica professionale e incentivare i migliori laureati a diventare insegnanti: in Finlandia, Paese al top dei ranking internazionali, si tratta della seconda professione più ambita; in Italia quanti genitori augurano ai propri figli di intraprendere questa carriera? Per migliorare la qualità del corpo docente bisogna poi studiare strategie per rafforzare la pratica e la condivisione di conoscenze, per mettere gli insegnanti nella condizione di ampliare le proprie strategie pedagogiche e affrontare le diversità di interessi e di abilità degli studenti.
Non c’è il rischio di applicare modelli standardizzati, lontani dalla realtà?
Sì, per non fare passi falsi bisogna evitare la messa in pratica di interventi “preconfezionati”, realizzati in sequenza meccanica. Al contrario, sono necessarie la diagnosi dei problemi e la personalizzazione delle soluzioni. Ciò significa che i singoli docenti devono innanzitutto diventare consapevoli delle proprie debolezze, cambiando anche la mentalità di fondo. Apprendere best practices, in questo caso, può essere utile, ma soprattutto è fondamentale creare le giuste motivazioni. E non parlo di incentivi monetari, almeno non solo: bisogna riuscire a creare grandi aspettative, un senso comune d’intenti e la convinzione collettiva di poter riuscire a fare la differenza nell’educazione dei propri alunni. Tornando alla Cina, a Shanghai ai prof che puntano a fare carriera viene richiesto un passaggio obbligato nelle scuole più difficili, per dimostrare le proprie abilità nei contesti più impegnativi. I successi si conquistano sul campo: su questo fronte l’Italia ha ancora molta strada da fare.
Il Sole 24 Ore 21.01.13
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