Deve apparire un continente davvero infelice l’Europa di oggi agli occhi di Amartya Sen. Ospite del Festival delle Scienze (in corso all’Auditorium di Roma) dedicato quest’anno al tema della felicità, il premio Nobel dell’economia nel 1998 concentra tutta la sua attenzione sulla nostra parte di mondo. Usa termini inequivocabili: il «pasticcio», di più, il «disastro», il cammino «sbagliato» dell’Europa. Un percorso perseguito con cieca ostinazione, trasformandosi, secondo Sen, nella negazione della scienza economica. «L’economia insegna che se provi una cosa, e non funziona, la riprovi e ancora non funziona, allora devi imparare qualcosa e non continuare». Lo hanno fatto gli Stati Uniti negli anni 30, lo ha fatto il Giappone. Invece l’Europa non si ferma sulla strada dell’austerità che mette a rischio la sua storia, fatta di welfare state, la sua democrazia, inibìta da decisioni prese senza confronto pubblico, e infine il principio stesso di solidarietà su cui si fondava l’idea dell’unione nel manifesto di Ventotene.
Oggi «i tedeschi odiano i greci e viceversa», osserva il premio Nobel. Tutto questo a causa del rigore che oggi si confonde e si coniuga con le riforme. Qui sta l’errore. «L’austerità è una cosa, le riforme un’altra spiega -. L’Europa ha certamente bisogno di riforme, quella delle pensioni, quella dell’imposizione sui redditi. Ma non ha bisogno di austerità». Su questo punto, purtroppo, manca ancora un pensiero politico ragionato, una proposta alternativa riconoscibile.
Nell’incontro con la stampa che precede la lectio magistralis anticipa che la sua teoria della felicità è antitetica a quella di Jeremy Bentham e alla schiera dei suoi allievi. L’approccio degli utilitaristi è «ristretto, limitato, formale». Il tema è ben più complesso e articolato della lotta per i diritti che caratterizzò il pensiero degli utilitaristi. E molto, molto più ampio. «Più che a Bentham spiega Sen la mia ispirazione si rifà a Antonio Gramsci e alla sua filosofia spontanea» Difficile tracciare una differenza tra felicità di destra o di sinistra. «Molto dipende dalla definizione che si dà, che fin dai tempi antichi è stata molto fluida continua Sen Per esempio per Aristotele la felicità è ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».
All’interno di questa vasta gamma di attributi, può essere compresa la libertà umana. «E la disoccupazione, ad esempio è un fattore della libertà aggiunge pertanto economia e felicità sono collegate. Io affermo ad esempio che l’Europa è infelice a causa dell’economia. Diverso è quando affermo che l’Europa sbaglia, perché in questo caso do un giudizio personale». Ma quella distinzione tra felicità per la destra e per la sinistra esiste eccome. E risiede nelle priorità di ciascuna parte. «La sinistra ha sempre fatto più attenzione alle diseguaglianze e all’equità spiega ancora l’economista La destra in passato alla proprietà, oggi alla libertà. Io mi colloco sicuramente a sinistra, ma non per questo non credo che il tema della libertà non sia importante. Non c’è conflitto, ma restano valide le distinzioni, soprattutto sul ruolo dello Stato. È noto che la destra è sempre stata ostile all’intervento dello Stato nell’economia. Io credo che oggi ci sia bisogno di studiare attentamente questi due programmi. E trovo deprimente che nel Paese natale di Gramsci non si veda un’agenda di sinistra ben riconoscibile». Poi il pensiero torna ai mali d’Europa, di cui aveva scritto nel 2011, poi nel 2012 e oggi le cose non sono cambiate. Il baratro in cui l’Europa si ritrova lo raccontano due telefonate, ricevute da Sen la stessa mattina. La prima dall’India. «Ha visto professore lo scenario deprimente dell’economia indiana, che quest’anno cresce solo del 6%?», gli chiede il giornalista. «Evidentemente prima cresceva di più», osserva Sen. Seconda chiamata da Parigi: «L’economia europea quest’anno è a zero, non le sembra che dobbiamo rallegrarci?» «Se questa è la domanda continua Sen l’Europa ha un problema». L’austerità sta danneggiando i Paesi periferici, ma oggi anche la Germania, che non riesce più a mantenere l’export se gli altri si impoveriscono. Berlino sta subendo un poderoso effetto boomerang, perché «le politiche deflazionistiche danneggiano non solo la domanda interna, ma anche quella estera. Lo sa l’Italia, ma lo sa bene anche la Gran Bretagna, che non aveva alcun bisogno di austerità». Quello che manca per fronteggiare questo disastro è una voce politica ragionata contro «quello che sembra essere un consenso tra i leader sulla politica finanziaria. Se fossi impegnato immagina Sen direi che occorre una dichiarazione congiunta paneuropea, dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Irlanda, dall’Italia, insomma di tutti. Ma per ora non la vedo. Occorrerebbe una visione che contrasti questi problemi, ma non c’è». La nuova visione economica è il leitmotiv da cui Sen non si allontana. Si irrita quasi con chi chiede se i tassi vanno abbassati, se l’euro è troppo forte. «Il problema non è qui. Potrei anche rispondere di sì, che i tassi vanno abbassati, e persino spiegarlo aggiunge Ma il disastro europeo non nasce qui, nasce dall’austerità». Vero è che il processo, secondo Sen, è nato male: per lui serviva prima l’integrazione politica e sociale, e solo dopo doveva arrivare la moneta. Si è fatto il contrario, ma l’euro comune senza politiche di bilancio integrate non fa altro che creare tensioni. Ma oggi sotto tiro c’è quel rigore che dimentica di coniugare l’economia di mercato al sociale. «Come diceva Adam Smith spiega il professore un mercato buono aumenta il reddito delle persone, una vita buona aumenta le entrate dello Stato per i servizi sociali e per la buona società. In questo economia di mercato e sociale sono complementari. Questa è in realtà la tradizione europea, quella che ha creato il servizio sanitario nazionale, che ha creato il welfare, e lo ha insegnato al resto del mondo. Ma oggi sembra tutto dimenticato».
L’Unità 19.01.13