Il settore rischia di saltare per una crisi finanziaria. Dalla voragine di Storace ai rimborsi falsim storia di un crac annunciato. L’8 gennaio scorso, fuori dai cancelli dell’Idi, un volantino recitava: «….Dopo ben 4 mesi senza stipendio molti nostri colleghi si sono ritrovati senza risorse economiche. C’è chi ha avuto sfratti, blocco utenze e anche chi oramai non riesce più a portare a tavola qualcosa da mangiare. Pertanto abbiamo allestito una dispensa per i nostri colleghi dove sono presenti beni di prima necessità: pane, riso, pannolini, olio… e tutto ciò che potrebbe essere utile alle mamme ed ai loro bambini… Aiutiamo i nostri colleghi a vivere». Siamo a Roma e il San Carlo-Idi non è una fabbrica ma uno dei più importanti centri dermatologici in Italia, un’ospedale di proprietà della Congregazione dei figli dell’Immacolata Concezione convenzionato con il servizio sanitario nazionale. Si trova in via Aurelia 275 e per anni è stato considerato una delle eccellenze italiane. Oggi, invece, rappresenta il simbolo di una crisi che investe l’intera sanità della regione Lazio, malata quasi terminale.
Il morbo che l’ha colpita, che oggi si sta manifestando in tutta la sua virulenza, non è recente. È in circolo da anni. Ha cominciato a manifestarsi durante la giunta di Francesco Storace, dal 2000. L’ex governatore, oggi nuovamente candidato, ha abusato della sanità per creare consensi. Proprio per questo, sotto la sua reggenza, il settore ha generato un buco di oltre dieci miliardi di euro. Oggi, naturalmente, Storace nega, ma basterebbe ricordare i 49 ospedali pubblici venduti e poi riaffittati a caro prezzo alla Regione, le gesta di lady Asl, le fatture gonfiate, le tangenti, il fiume di denaro scomparso senza traccia. Basterebbe ricordare come i bilanci che le aziende sanitarie laziali avrebbero dovuto redigere tra il 2003 e il 2005 vennero approvati solo nel 2006, quando la Corte dei Conti segnalava «la non piena attendibilità delle scritture contabili». Un modo gentile per dire che quei documenti erano falsi e sottolineare l’esistenza di un deficit sanitario sommerso.
Storace lasciò nel 2005 sepolto dagli scandali, ma la polvere sotto al tappeto rimase. Per scongiurare un crac annunciato il ministero dell’Economia obbligò l’Ente, con la giunta Marrazzo, a un piano di rientro lacrime e sangue. Venne accordato un prestito trentennale da 5,5 miliardi (al 5,965%) che la Regione ogni anno rimborsa con rate da 350 milioni. Eppure nonostante l’esperienza precedente una vera inversione di tendenza non è mai arrivata. Si continua sempre a ripianare il debito chiedendo uno sforzo ai cittadini (attraverso l’Irap e l’Irpef) senza far guarire il malato. Tanto è vero che anche per il 2013 il disavanzo tendenziale viaggia verso il miliardo di euro.
SERVIZI SCADENTI
Il paradosso è che nonostante i tanti soldi impiegati in quasi quindici anni, l’offerta del sistema sanitario regionale è tra le più basse d’Italia. Per comprendere di che cosa si sta parlando basta leggere il documento redatto lo scorso marzo dal ministero della Salute sui «Livelli erogati di assistenza sanitaria» (Lea): in cinque dei 21 indicatori utilizzati per verificare la qualità complessiva del sistema, il Lazio si posiziona ultimo in Italia. Come ci dice il medico Roberto Polillo ex segretario nazionale Cgil-Medici, per due anni al ministero della Salute con il secondo governo Prodi, redattore di Quotidiano Sanità dal numero dei posti equivalenti per assistenza agli anziani in strutture residenziali, alla percentuale di parti cesari, dal costo pro capite dell’assistenza collettiva in ambiente di vita e lavoro al numero dei posti per l’assistenza ai disabili, il Lazio presenta le maggiori problematiche. Quando la giunta Polverini si affacciò al capezzale, mettendo mano al sistema sanitario regionale con la delibera 80 del 2010, alcune criticità erano così riassunte: a) un eccesso di offerta ospedaliera con una presenza di posti letto privati che superava il 40% e che realizzava oltre il 50% dei ricoveri; b) massima concentrazione delle strutture ospedaliere e delle alte specialità nell’area metropolitana e forte carenza nelle province; c) bassa qualità delle cure ma costo eccessivo; d) scarsa presenza delle cure primarie nonostante la riconversione di 24 ospedali trasformati in ospedali difettivi e poliambulatori.
Dal documento emergeva, in sostanza, un mostro di burocrazia, farraginoso, spesso con comparti inutili, non razionale, costosissimo. Ad esempio. Dal sito della società dei trapianti d’organi d’Italia si scopre che nel Lazio ci sono cinque strutture accreditate (il San Camillo-Forlanini, il Sant’Eugenio, il policlinico Umberto Primo, il Bambin Gesù e il Gemelli) per il trapianto del fegato. Strutture anche di un certo rilievo scientifico ma che producono meno interventi dell’Ospedale Molinette di Torino, unico centro accreditato in Piemonte (regione con un milione di abitanti in meno). Oppure: nel Lazio sono presenti 39 strutture di unità di terapia intensiva cardiologica (come si evince dall’elenco dell’associazione medico chirurghi) ma solo sei, come dice Polillo, lavorano ventiquattro ore al giorno. Ricorda, poi, Ignazio Marino, senatore del Pd e membro della Commissione parlamentare sulla Sanità: «Nel Lazio ci sono 1600 Unità Operative, a capo di ognuna della quali c’è un primario. Quante di queste sono davvero necessarie?». E quante create per offrire un posto di prestigio a qualcuno?
Tra l’altro, non è ancora chiaro quanti siano i posti letto esistenti. Per anni ci sono stati dati contrastanti. «In una tabella del ministero della Salute ci dice ancora Polillo i posti letto presenti al primo gennaio 2012 risultano essere 23.041 (di cui 4307 di post acuzie)». Invece nella tabella allegata a un verbale regionale di due mesi prima «i posti letto sarebbero in numero inferiore e cioè 22.833 (di cui 4215 di post acuzie)». La scarsa attendibilità dei dati regionali è una consuetudine: «Ad esempio, i posti letto risultanti al 2006 (dati del ministero della Salute) erano 21.311 mentre quelli censiti con la delibera 80/2010 erano 25mila». Una differenza di oltre 4mila posti letto.
Naturalmente l’inefficienza ha un costo che ricade sui cittadini: secondo il Tribunale per i diritti del malato in un pronto soccorso del Lazio per un codice verde si può aspettare fino a dodici ore, contro le due ore della Toscana e i sessanta minuti della Lombardia, mentre è ancora sotto gli occhi di tutti lo spettacolo di una capitale che, la settimana scorsa, per molte ore è stata senza ambulanze.
MUCCA DA MUNGERE
Ma non è solo un problema di burocratica inefficienza. Per spiegare quel disavanzo monstre c’è anche altro. La sanità nel Lazio, per anni, è stata, una mucca da mungere, il bancomat per comprare consensi elettorali o creare gruppi di potere. Scriveva Angelo Raffaele De Dominicis, procuratore regionale della sezione giurisdizionale del Lazio della Corte dei Conti, nell’ultima relazione sulla Regione Lazio dello scorso febbraio: «Gravissimi fatti illeciti sono stati, altresì, riscontrati durante il 2011 nel settore della spesa sanitaria (…) . Di recente si segnalava ancora nella relazione la Procura regionale per il Lazio ha chiesto alla competente Sezione Giurisdizionale il sequestro conservativo di beni immobili appartenenti alla San Raffaele Spa (ex Tosinvest spa), per 134 milioni di euro, a garanzia del corrispondente danno subito dal Servizio Sanitario Regionale, per effetto di una complessa e articolata indagine relativa alla fittizia o irregolare erogazione di prestazioni di riabilitazione eseguite presso strutture convenzionate, e in particolare presso la casa di cura San Raffaele di Velletri». I rimborsi illeciti al gruppo San Raffaele, sempre secondo il procuratore, «destano particolare sconcerto e preoccupazione ove si consideri che oltre il 68% dell’intero debito sanitario nazionale è costituito dal disavanzo accumulato da due regioni: Lazio e Campania».
Ma il marciume evidenziato dalla Corte dei Conti rappresenta solo una parte. Qualche settimana fa spiegava Enrico Bondi, ex commissario alla Sanità del Lazio, presentatosi qualche mesa fa al capezzale del malato armato di solo bisturi, che c’erano casi, come quello del San Carlo Idi, guarda caso, dove molte fatture, per almeno 110 milioni, venivano pagate due volte: la Regione le pagava all’Idi, e l’Idi le scontava ugualmente, facendosi dare altri soldi, da banche o società di factoring. Le quali ora battono cassa. E non vogliono soltanto quei 110 milioni di euro. «Ma anche i 51 di fatture non riferibili a prestazioni sanitarie, contestate dall’Asl», come sottolineò ancora Bondi, che l’Idi ha comunque scontato. Oltre agli 83 relativi invece a «prestazioni non riconoscibili», sempre anticipati dalle stesse banche. Totale: 244 milioni. E cioè un quinto del disavanzo totale.
La sanità del Lazio è malata cronica, si diceva. Dal San Carlo-Idi alle strutture del gruppo San Raffaele, dal Policlinico Gemelli agli ospedali religiosi riuniti nell’Aris, fino agli ospedali pubblici come il San Filippo Neri e il Cto, tutti vivono di giorno in giorno e col fiato sospeso. La regione ha pochi fondi da utilizzare. Tecnicamente, se fosse un’azienda privata, si potrebbe definirlo un crac. Ma qui si parla di salute, e di una malattia durata anche troppo tempo. Dalla quale ci si può curare. Ma serve che qualcuno lo faccia.
L’Unità 18.01.13
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“La spesa record del sindaco di Roma: venti milioni di euro l’anno. I mille consulenti di Alemanno”, di Daniele Autieri
Non bastavano 19mila dipendenti, 6mila funzionari e 280 dirigenti superpagati per mandare avanti il pachiderma amministrativo del Comune di Roma. Nonostante un esercito tanto nutrito il Campidoglio di Gianni Alemanno ha spalancato le porte alla carica dei consulenti: 1.020 negli ultimi due anni, costati alle tasche dei contribuenti 20,7 milioni di euro.
A dispetto del debito, del bilancio approvato con dieci mesi di ritardo e dei tagli ai servizi sociali, il Comune di Roma non ha avuto problemi a foraggiare la platea dei collaboratori. Una prassi tanto diffusa in Campidoglio da coinvolgere persino l’ufficio incaricato di verificare la congruità dei compensi assegnati agli esterni. Proprio l’Organismo indipendente di valutazione, istituito nel 2010 da Alemanno e presieduto dal direttore generale del Comune, Liborio Iudicello, è guidato da due consulenti con una pluriennale esperienza nella pubblica amministrazione, Livio Barnabò e Francesco Verbaro, ai quali il Campidoglio ha riconosciuto un compenso di 40mila euro.
La loro storia è solo una goccia nel mare. I casi clamorosi non mancano. Uno di questi è Alexander Marco Andrew Sciarra. Nato a Londra il 21 febbraio 1973, Sciarra ha ottenuto un primo incarico dall’aprile al dicembre 2010 con un compenso di 49.959. Il suo compito — si legge nella determinazione dirigenziale 293 del 31 marzo 2010 — era «lo studio delle nuove attività istituzionali di cui sarà investita l’Assemblea Capitolina (in virtù dell’attuazione della legge per Roma Capitale)». La Giunta Alemanno ha giustificato l’assegnazione diretta adducendo la complessità dell’incarico e le «non comuni competenze» di Sciarra nel settore oggetto della consulenza. In realtà, scorrendo il curriculum allegato alla determinazione, l’uomo «ha conseguito una laurea in scienze della comunicazione all’università Lumsa, un master in geopolitica e sicurezza globale all’università La Sapienza e un diploma di liceo linguistico con buona conoscenza di lingua inglese e spagnola».
Tante competenze gli hanno comunque assicurato il rinnovo della consulenza prima per tutto il 2011 e poi anche per il 2012. La determinazione dirigenziale RQ/14336/2012 dell’Ufficio dell’Assemblea capitolina rivela che l’ammontare pagato a Sciarra per il solo mese di dicembre 2012 è pari a 5.596,25 euro.
A diretto supporto delle funzioni attribuite al sindaco è invece Giancarlo Del Sole che dopo un incarico da 20mila euro nel 2010, ne ha firmato un altro da 40mila per l’anno seguente, ed è stato inserito nel Comitato tecnico del piano strategico per la mobilità sostenibile. L’elenco è lungo, i tariffari oltre le medie di mercato e i giustificativi alle voci di spesa disparati. Si parte dai membri delle commissioni di vigilanza dei parcheggi pubblici che dal dipartimento Mobilità e Trasporti ricevono in media 3mila euro ciascuno, agli incarichi di rilevazione dei numeri civici nell’ambito delle indagini statistiche sulla toponomastica del Comune di Roma. Incarichi che possono valere anche 7mila euro l’anno.
Cifre più rotonde girano nell’ufficio del “Commissario delegato all’emergenza traffico e mobilità”, carica che la presidenza del Consiglio assegna al sindaco di Roma. A supporto della struttura ci sono 7 consulenti che costano 283.680 euro. Tra loro il magistrato amministrativo Giuseppe Rotondo, che ha ricevuto in qualità di «esperto» 40mila euro nel 2010 e altrettanti nel 2011, e Andrea Benedetto, che ha invece ottenuto dall’amministrazione due contratti annuali da 50mila euro ciascuno.
Tanti soldi li ha spesi anche il Dipartimento Patrimonio che per una consulenza trimestrale «sull’evoluzione del sistema di gestione del database patrimoniale» (dicembre 2010 — marzo 2011) ha riconosciuto a Sandro Incurvati 61.800 euro. E poi ancora denari per periti, architetti, avvocati, ricercatori, geometri, insegnanti, linguisti, sedicenti esperti di comunicazione e strategie finanziarie. Tutti con competenze che nessuno dei 25mila dipendenti del Campidoglio possiede. Possibile?
La Repubblica 18.01.13