Quanto peserà la televisione nella campagna elettorale 2013? Sarà decisiva per i risultati o prevarranno i new media, web, blog, twitter, Facebook, YouTube? La domanda corre dopo il ritorno di Silvio Berlusconi sugli schermi e la rimonta sul Pd di Pierluigi Bersani che i sondaggi stimano tra il 2 e il 3%. E tornano le fruste risposte che circolano dal 1993. Chi crede e chi teme che la tv aiuti Berlusconi, chi spera e chi depreca che i talk show corrida diano una mano alla sinistra, chi invece, ultimi in ordine di tempo, irride la tv come obsoleta e giura che a decidere sul filo di lana sarà internet.
Per trovare la soluzione, occorre sgombrare un quarto di secolo di equivoci. Per cominciare non è vero che Berlusconi abbia dominato per anni «perché ha le televisioni». Questa analisi rozza, muove da una corretta premessa, che cioè il conflitto di interessi tv aiuti la destra. E’ vero, e va regolato l’equilibrio proprietario dei network per impedire che un giocatore solo sia politico e imprenditore della comunicazione.
Ma chi guarda agli esiti elettorali dal 1994 con serenità, sa che Berlusconi ha sempre vinto partendo dall’opposizione, nel 1994, nel 2001 e nel 2008, e ha sempre perduto dopo avere nominato i vertici della tv pubblica, al massimo del consenso tv quindi, 1996 e 2006. Se la tv fosse dirimente, un esito del genere sarebbe impossibile.
La verità è che l’analisi del centro destra, da Forza Italia al Pdl, come semplice «partito di plastica», che tanti danni ha fatto a sinistra, è smentita dalla realtà. Berlusconi e i suoi alleati hanno oggi intorno al 25% dei consensi. L’Spd tedesca, storico partito che risale fino al remoto Programma di Gotha criticato da Karl Marx, non va per ora oltre al 29 per la sfida contro la Merkel. La destra scommette per una sorpresa al Senato sull’area forte del paese, Piemonte, Lombardia, Veneto, come sul Sud, Campania e Sicilia, grazie a un radicamento sociale, a ceti, dinamici o parassitari, con cui la sinistra non sa bene dialogare. Certo che la tv conta: ma in quanto amplifica i messaggi concreti e li fa arrivare a chi, altrimenti, non li ascolterebbe. Ma senza un leader, un messaggio politico, una coalizione sociale, tutta la tv del mondo non basta.
La Lega di Bossi si radicò senza tv. Romano Prodi, considerato da tutti gli «esperti» un candidato senza alcun appeal mediatico, sbaragliò per due volte Berlusconi, mago delle tv, perché il suo messaggio pacato persuase la sua coalizione. Vale anche in tv la micidiale «Prima Legge» coniata dalla studioso Melvin Kranzberg «la tecnologia non è buona, né cattiva e neppure neutrale». Non è la tv a decidere, arbitro assoluto, l’esito di un’elezione, ma il suo intervento influenza i risultati. Obama ha messo a rischio la vittoria su Romney col primo dibattito flop, ma poi ha comunque prevalso. Beppe Grillo, che rivendica il primato politico digitale, e guida un ottimo blog e un discreto account twitter, deve però il successo in Sicilia non alla rete, ma alla vecchia tv: sono gli show da artista del video a renderlo popolare anche in aree della popolazione non avvezze ai computer.
In una stagione di polarizzazione delle coscienze, è quasi impossibile che un cittadino di destra voti a sinistra e viceversa. La tv e il web mobilitano la base e richiamano dall’astensione i simpatizzanti delusi. Lo studio dei Big Data conta i propri consensi e quelli dell’avversario per accertarsi di avere un voto in più. Bersani e Pd hanno galvanizzato la base democratica con una perfetta stagione di primarie con Matteo Renzi, consolidando gli elettori tradizionali, fidelizzandone di nuovi. Ora Berlusconi parla ai suoi, evoca la loro cultura e le loro idee: sa di averli irritati, ma sa che non sono diventati di sinistra. Non è «la tv» a farlo rimontare, sono i loro interessi e valori che si risvegliano a voto vicino.
E’ giusto che tv private e pubbliche offrano eguale spazio ai candidati, ma non sarà un minuto in più o uno in meno a decidere delle elezioni. Sarà l’uso raziocinante che i leader faranno del mezzo tv, e i riformisti di Monti e Bersani, privi di tv private, dovranno lavorare a una riforma tv di equilibrio e professionalità. Il populismo tv, ormai rodato da vent’anni, premia i candidati con messaggio diretto, «di pancia», Berlusconi e Grillo.
Qui, e sarà l’effetto sorpresa, entra in gioco il web. I dati del Censis e di McKinsey confermano che la maggioranza degli italiani è online e la rete muta la televisione. Da mezzo unidirezionale, il leader parla i cittadini ascoltano magari commentando tra moglie e marito sul sofà, la tv diventa assemblea. Durante il confronto Bersani-Renzi, durante lo show che ha dato a Berlusconi voti e a Santoro audience (simbiosi Paguro Bernardo Attinia perfetta) giornalisti e cittadini hanno commentato online la tv, creando quella che lo studioso Weinberger chiama «camera intelligente», dibattito dove i ragionamenti vanno via via raffinandosi. La convergenza «old e new media», tv e web, è il teatro di battaglia 2013.
Infine ci sarebbero i faccia a faccia. Berlusconi li chiede quando è in svantaggio e nega quando è in vantaggio. La sinistra può essere tentata di rendergli la pariglia. Vanno invece imposti, se non per legge almeno per consuetudine come in America. Leader, messaggi, coalizioni di interessi e valori sociali in contrasto davanti alla tv, con il paese che si confronta online preparandosi al voto: così funziona la democrazia del XXI secolo e prima ne accettiamo il codice più in fretta rinnoveremo la classe politica e metteremo alla prova la nostra cittadinanza.
La stampa 18-01.13