L’Italia contribuirà con una quota di addestratori alle operazioni antiterrorisrno iniziate su impulso francese in Mali. La decisione è stata annunciata in Parlamento dal Ministro Terzi e confermata nel Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea, dove la necessità di un’operazione militare decisa, capace di arrestare e respingere la penetrazione di Al Qaeda nello Stato africano, ha trovato un largo consenso. Ci si chiede oggi se l’iniziativa sia sufficiente, stanti le caratteristiche di quell’area, se sia addirittura tardiva, vista l’ampia mole di analisi già disponibili nei mesi scorsi su cosa stava accadendo, se ci si trovi davanti a un rischio di Afghanistan africano. Dopo la morte di Osama Bin Laden, Al Qaeda ha subito un processo di riorganizzazione molto problematico: il troncone af-pakistano ha continuato le sue attività contro i soldati stranieri impegnati a cercare di stabilizzare l’Afghanistan; quello iracheno non ha giurato fedeltà al successore di Osama e conduce in franchising una propria azione tutta centrata sul conflitto interno anti-sciita, senza più attenzione verso gli «occidentali»; quello yemenita tenta invece di installare dei piccoli califfati autonomi (nonostante il nome più impegnativo di Al Qaeda per la Penisola Arabica) nel sud del Paese, aspramente combattuto dal governo di Sanaa e dai droni americani.
Ma è il Sahel la vera area di rischio della polveriera araba. La «riva del deserto» – questo il significato del nome – è un’area troppo grande (due milioni e mezzo di km quadrati) e priva di confini naturali per essere effettivamente controllata. Come l’onda di un maremoto, il Sahel ha subito il contraccolpo delle rivoluzioni arabe nel Maghreb ed è oggi attraversato da gruppi assai eterogenei – alcuni legati a un’idea di jihad globale come Al Qaeda, altri sempre di natura islamista ma di orizzonte regionale, gli irredentisti tuareg e molte bande di criminali comuni – che da qualche anno collaborano «tecnicamente» scambiando armi, droga, ostaggi, esperienze di addestramento.
Non si tratterebbe probabilmente di numeri importanti in sé. Tutte le organizzazioni assieme dispongono di qualche migliaio di operativi e, fra questi, solo qualche centinaio di terroristi «professionisti». Purtroppo però hanno una grande capacità di movimento sul territorio, un’abitudine alla mimetizzazione fra la popolazione civile e una grande capacità di condurre azioni destabilizzanti in Libia, nel sud del Marocco e della Tunisia, in un’Algeria che ha già pagato un prezzo spaventoso negli anni ‘90 e che torna oggi in prima linea come campo di battaglia e come Paese leader locale nelle azioni di contrasto. Il salto di qualità della minaccia è avvenuto da qualche mese a questa parte con una diversa aggressività nel Mali, individuato come possibile entità statuale nella quale radicarsi e dalla quale ripartire con ambizioni più grandi.
Con la nomina di Romano Prodi, le Nazioni Unite avevano mostrato di prendere molto sul serio la sfida del Sahel e di avere privilegiato, fin quando possibile, la costruzione di una rete diplomatica di relazioni fra gli attori coinvolti e di una strategia di sviluppo regionale capace di contrastare il richiamo della sirena jihadista offrendo un’alternativa credibile a una delle aree più povere dell’intero pianeta.
La rottura di un confine e l’azione militare condotta, inaspettatamente, non a nord ma a sud contro Bamako hanno però suggerito a Parigi di cambiare registro. La comunità internazionale, gli Stati Uniti, l’Europa, ma anche i nuovi Paesi arabi del Maghreb e quelli africani della fascia sub sahariana non possono tollerare che cresca e si radichi, come un tumore, una minaccia di quelle dimensioni.
Occorre sì proseguire il rilancio di una strategia economica alternativa per il sottosviluppo dell’area, occorre cercare di separare – con l’aiuto dell’intelligence – le bande meramente criminali dalla ragnatela dello jihadismo islamista, ma serve fin da subito cercare di disarticolare l’organizzazione terrorista e innestare un livello superiore di coordinamento della sicurezza fra gli Stati coinvolti.
È un’esigenza condivisa, anche dall’Italia. Sconfiggere sul campo la minaccia armata è anche un modo per aiutare direttamente le difficili transizioni in Libia e Tunisia, altrimenti distratte dal crescere dell’insicurezza sui propri confini meridionali.
Lo sapevamo: la lotta al terrorismo è in sé un processo senza fine e le rivoluzioni arabe non sarebbero state un pranzo di gala. Oggi, fra Mali e Algeria, ne abbiamo la dolorosa conferma e per questo ci assumiamo la nostra piccola parte di responsabilità.
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