È uno strumento tecnico per rendere più imparziali i controlli sulla fedeltà fiscale dei contribuenti. E invece, sotto la pressione della campagna elettorale, il redditometro è diventato innanzi tutto un test per misurare l’affidabilità della classe di governo. Con risultati disastrosi sul piano di quel minimo di decenza che dovrebbe esserci nel rapsua fra il principe e i sudditi. Ne disconosce la paternità Silvio Berlusconi che pure, insieme a Giulio Tremonti, aveva gettato il primo seme legislativo della contestata creatura. Ma anche chi lo ha appena dato alla luce, Mario Monti, lo rigetta quasi fosse frutto non di una scelta consenziente ma di una violenza subita contro la propria volontà.
Si fa presto a citare le sagge parole di De Gasperi quando diceva che il politico si distingue dallo statista perché l’uno guarda alle elezioni e l’altro al futuro del paese. Alla prova dei fatti (e delle urne) non c’è scampo: la cattiva moneta berlusconiana sta scacciando anche quella sedicente buona spacciata finora dai cosiddetti ‘tecnici’.
Una simile regressione del dibattito politico lascia francamente sbalorditi soprattutto perché – nell’ossessione di lisciare comunque il pelo agli elettori – si rischia di gettare alle ortiche uno strumento che per la dinamica rappresenta un eccellente passo in avanti quanto a correttezza di rapporti fra Erario e contribuenti. In Italia per lunghi decenni l’amministrazione fiscale ha svolto le sue campagne di verifica delle singole posizioni reddituali secondo criteri propri e ignoti al pubblico. E perciò giustamente mal tollerati perché esposti al sospetto di scelte arbitrarie o, peggio ancora, strumentalizzate secondo fini inconfessabili. Piaccia o no, il redditometro opera un taglio netto con questo passato oscuro e poco raccomandabile in una democrazia sana e trasparente. Ai controlli ora si procederà in forza di canoni dichiarati in partenza e fondati su un metodo di riscontro che tutti – a parole – riconoscono come il più ovvio ed efficace per stanare gli evasori: quello della congruità del rapporto fra redditi dichiarati e spese effettuate.
Ed è proprio su questo punto che risulta particolarmente indigesto il voltafaccia di chi ha governato
o governa ora il paese. Non si può coltivare la giusta indignazione degli italiani menando vanto di aver scoperto qualche furbetto che viaggia in Ferrari con un reddito dichiarato di 20mila euro e poi fare repentina marcia indietro di fronte all’esigenza di rendere razionale e sistematica la lotta all’evasione sol perché si temono contraccolpi nelle urne. Questo modo di operare non è serio e comporta un’abdicazione al ruolo essenziale della politica che si sostanzia nel rendere chiari e visibili ai cittadini i fini dell’azione di governo e gli strumenti più consoni a realizzarla.
Naturalmente è possibile ed anzi probabile che gli schemi seguiti nella costruzione del redditometro contengano errori anche tecnici di valutazione che potranno e dovranno essere rivisti in base all’esperienza pratica. Ma il vero e fondamentale errore commesso da chi governa è stato quello di non aver spiegato con precisione le caratteristiche di questa novità e di non aver utilizzato tutti i buoni argomenti a disposizione per chiarire che non si tratta affatto di uno strumento di ‘polizia’ ma, al contrario, di ‘pulizia’ fiscale. Come dimostra il fatto che i controlli in base a questo nuovo sistema riguarderanno non oltre 40mila contribuenti l’anno su una platea di qualche decina di milioni. E quindi serviranno non ad aprire ma a prevenire il sorgere di un contenzioso formale tra il Fisco e il cittadino: sempre che quest’ultimo, ovviamente, abbia i conti in regola e nulla da nascondere.
Insomma, soltanto gli evasori più incalliti hanno giustificato motivo per temere il redditometro. Viceversa, si è lasciato che la demagogia preelettorale prendesse sempre più campo alimentando la paura di chissà quale persecuzione fiscale anche fra coloro che non avrebbero ragione di temere alcunché. Ed ora, anziché combatterla, ci si arrende a questa insana psicosi collettiva in un sonno della ragione che costituisce il peggior epilogo per il governo dei tecnici.
La Repubblica 17.01.13