«L’Italia non sta utilizzando al meglio una parte importante del suo capitale umano, le donne. È una perdita colossale per la nostra economia», hanno scritto sul «Corriere» Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. La partecipazione alla forza lavoro delle donne in Italia è tra le più basse dei Paesi Ocse e la più bassa in Europa. Nel 2011 solo 52 donne italiane su 100, fra i 15 e i 64 anni, lavoravano o cercavano attivamente un lavoro. In Spagna erano 69, in Francia 66, in Germania 72, in Svezia 77. Solo in Messico e Turchia erano meno che in Italia. MILANO -Detassazioni per le attività di cura. Incentivi fiscali. Congedi di paternità obbligatori «significativi» (tre mesi?). Servizi per l’infanzia, le disabilità e la vecchiaia. Quote di genere a tutti i livelli della società. Un’organizzazione del lavoro meno rigida. Interventi sulla scuola e sui media per abbattere gli stereotipi. Tempo pieno nelle scuole, e non solo fino alle elementari. Modalità di selezione «neutre» per assunzioni e percorsi di carriera. Il tribunale delle donne.
Pur con qualche distinguo tecnico, si può sintetizzare in questi dieci punti l’agenda delle donne per aumentare il lavoro femminile. Un ventaglio di proposte che arrivano da centri studi come quello della Banca d’Italia; da associazioni come Fondazione Bellisario, Valore D, Progetto Donne e Futuro; da esperte come Chiara Saraceno, Paola Profeta e Susanna Stefani. E che coinvolgono sia la parte pubblica che le aziende. Perché per cambiare la cultura – dicono gli studi di Bankitalia coordinati da Magda Bianco – occorre agire su una combinazione di fattori. Nella discussione politica, però, per adesso, non se ne vede traccia.
Welfare. Non che qualcosa non si sia mosso in questi ultimi anni, «ma il cambiamento è lento e aggravato dalla crisi», dice Linda Laura Sabbadini, direttore dipartimento statistiche sociali dell’Istat. Per questo, nonostante il grande dibattito degli ultimi anni, continuiamo ad avere quella che ieri sulla prima pagina del Corriere della Sera, gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, hanno ricordato essere «una perdita colossale per la nostra economia». Perché se le ragazze che escono brillantemente dalle scuole trovano poi solo posti precari; e quando entrano stabilmente nel mondo del lavoro devono affrontare una corsa a ostacoli per non riuscire ad avere gli stessi stipendi e le stesse possibilità di carriera degli uomini, finisce che al primo figlio, o di fronte ai genitori anziani da accudire, restano a casa. «È un vero e proprio spreco – dice Chiara Saraceno, sociologa tra le più note -. Le giovani oggi si presentano tutte sul mercato del lavoro e hanno aspettative che vanno sistematicamente deluse». Per questo bisogna capire su quali leve agire.
Ruoli. «La mancata condivisione del lavoro di cura all’interno delle coppie e la carenza di servizi pubblici sono alla base della compressione del tempo che le donne dedicano al lavoro retribuito e provocano sotto-occupazione, precarietà e percorsi di lavoro più frastagliati – spiega Sabbadini -. Le donne, attraverso il loro lavoro gratuito di cura, hanno salvato il Paese ma questa catena di solidarietà sta entrando in crisi e la generazione più colpita è, e sarà, quella delle nonne cinquanta-sessantenni, che lavoreranno sempre più a lungo per l’innalzamento dell’età pensionabile e allo stesso tempo devono accudire i nipoti e i genitori sempre più anziani e spesso non autosufficienti. È un ruolo che non potranno reggere da sole. Bisogna ridare alla cura la centralità che merita in ambito pubblico».
Fisco. Quando si parla di donne e lavoro, i grandi temi sono tre: il primo è entrare nel mondo del lavoro, il secondo «conciliarlo» con la famiglia, il terzo fare carriera. Per far fronte soprattutto al primo, ieri Alesina e Giavazzi hanno proposto di detassare il lavoro femminile. Una proposta che viene accolta per esempio da Alessandra Perrazzelli, presidente di Valore D, «anche se – dice – non può essere la madre di tutte le misure». Anche Paola Profeta, esperta di sistemi di Welfare dell’Università Bocconi, è favorevole a un intervento fiscale, ma soprattutto per detassare i costi della conciliazione: «Oggi il conflitto è tra quanto una donna guadagna lavorando fuori casa e ciò che spende per la cura», dice. La stessa linea di Saraceno.
Il tema in più con cui fare i conti in questo momento è quello di dove trovare le risorse: «Realisticamente parlando, questo è un anno in cui l’obiettivo è uscire dalla crisi», dice Susanna Stefani, esperta di governance societaria che a lungo si è spesa per l’introduzione delle quote di genere. «Bisognerebbe capire quali tra le tre coalizioni principali è disposto a spendersi per questo». Saraceno dice che il problema c’è, «ma questo non deve penalizzare le donne rispetto agli uomini. Soprattutto non si può continuare a pensare che welfare e istruzione siano solo una spesa: sono un investimento in risorse umane, nelle nuove generazioni».
Quote. Introdotte nel luglio 2011 ma vincolanti a partire dall’agosto 2012 le quote di genere sono il segno più importante di qualcosa che si è mosso e molto ci si attende dalla loro introduzione. Bisognerà prestare attenzione soprattutto alle società pubbliche dove il controllo sull’attuazione (e su un’attuazione buona) sarà più difficile. Da più parti si chiede che siano estese a tutta la società, a partire dalla politica.
Il Corriere della Sera 16.01.13