Da lontano castello che era, affidato a guardiani poco visibili, l’Europa è divenuta in questi anni presenza più che mai tangibile. E più del previsto soverchiante. È entrata nel linguaggio di ciascuno, insediandosi imperiosa nelle nostre menti: sotto forma di incubo purtroppo, anziché di speranza. Chissà, forse il Nobel le è stato attribuito proprio per questo: perché davvero è nostra patria, anche se fatta nascere col forcipe, forza che coarta senza sostenere. Perché ci è diventata, come il dolore, in Rilke: luogo, campo, suolo, dimora, nostro cupo sempreverde. Forse era tanto più apprezzata quando era lontana dalle sue genti, quando era assente nel discorso pubblico e i popoli non la percepivano ancora come madre matrigna, ma madre pur sempre. Se c’è un vantaggio, nella crisi che sperimentiamo, è questo nostro entrare, obtorto collo, nel Castello fino a ieri così impenetrabile.
È un vantaggio perché finalmente possiamo discuterla, quest’Unione che d’un colpo irrompe nelle nostre vite e di continuo ci fa ripetere, come automi: «Ce lo dice l’Europa». Lo abbiamo visto in Grecia, Spagna, Francia; lo constatiamo in Italia, in Germania: non c’è elezione, ormai, dove il linguaggio dei politici non sia costretto a farsi europeo. In Italia lo dobbiamo alla fine del berlusconismo, alla biografia di Monti. Ma non siamo gli unici a vivere questa trasformazione, che tanti subiscono con risentimento. Il cambio di pelle non sembra far altro che impoverire le genti, e perfino le loro Costituzioni. Discutere l’Europa vuol dire non considerare fatale, indiscutibile, questo chiudersi di orizzonti.
Chi sente con dolore tale metamorfosi non ha tutti i torti, perché è vero che l’euro e i suoi custodi non sono affiancati da un potere politico egualmente comune, che raddrizzi squilibri e disuguaglianze fra nazioni e dentro le nazioni, che eviti la riduzione dei governi a comitati d’affari. Resta che l’Unione non è solo la moneta, come pretendono le agende dei partiti nazionali; né è solo una storia di conti da tenere in ordine, di debiti pubblici da abbattere con l’ascia fredda della Signora morte. Fin da ora essa è più ricca, vasta.
Ha un Parlamento dove ci si esercita a parlare europeo. È custode della democrazia pluralista, più che di un’ortodossia finanziaria. Ha strumenti come la Carta dei diritti fondamentali, approvata nel 2000 e divenuta pienamente vincolante nel 2009, quando entrò in vigore il Trattato di Lisbona.
Sono anni che Stefano Rodotà insiste su questa realtà, volutamente negletta, se non sprezzata, dai singoli governi. Ancora di recente, il 12 gennaio su Repubblica, lo ha ricordato, parlando del diritto degli omosessuali a unirsi e adottare figli: la Carta europea dei diritti ha lo stesso valore giuridico dei trattati, dei Fiscal compact, ed esiste per proteggere ogni minoranza etnica, religiosa; ogni stile di vita che non offenda la collettività. Corregge le indiscipline democratiche, non solo quelle contabili. È colpa dei politici nazionali se tale realtà è occultata; se solo i lacci economici sono l’obbligazione che ci lega. Se la lunga, complessa storia europea si riduce a un Decalogo finanziario.
Questo significa che l’Europa ci soverchia, sì, ma in maniera selettiva. Che il suo potere è troppo debole, non troppo forte. Che ancora deve nascere e imporsi come Stato di diritto, come garante sovranazionale della laicità, chiamato a proteggere i cittadini da interferenze di chiese e sette che si nutrono della fatiscenza dei vecchi Stati nazione. In Francia tutte le religioni, esclusa la buddista, si mobilitano compatte contro un disegno di legge sul matrimonio gay. È segno che gli Stati, meno sovrani, fronteggiano più faticosamente le ingerenze di lobby e chiese. Di qui l’importanza della Carta dei diritti, adottata non a caso nel mezzo della crisi.
L’Europa è un’impresa incompiuta ma non priva di forza, se solo volesse usarla e difendere un pluralismo gravemente danneggiato. Potrebbe farsi sentire sui matrimoni gay, sui nuovi modelli di famiglia: l’articolo 9 della Carta dei diritti non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso. Potrebbe obbligare a rispettare i diritti delle proprie minoranze etniche: in particolare i 10-12 milioni di rom e sinti che abitano l’Unione. Siamo in un’epoca di transizione, come ai tempi di Dante: «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?». Nel maggio scorso l’Europa ha ordinato agli Stati di integrare meglio i rom, e predisposto fondi a questo scopo. Ben poco è stato fatto, disattesi sono gli articoli 15, 18, 52 della Carta, e i rom continuano a soffrire discriminazioni, soprusi, deportazioni forzate, nell’Occidente europeo e soprattutto in Est Europa.
La fine dell’impero sovietico non ha messo fine alle loro pene. Le ha enormemente acuite. In Slovacchia, Romania, Ungheria, i rom e i sinti sono trattati come reietti, man mano che dilaga la crisi, ed esposti a violenze crescenti. Risale all’inizio del 2013 un articolo di Zsolt Bayer, amico personale del Premier Viktor Orbán e fondatore con lui del partito Fidesz, che commentando una rissa di Capodanno scoppiata presso Budapest ha concluso che i rom «sono un’etnia inadatta a coesistere con le persone. Sono zingari che sfruttano i ‘progressi’ di un occidente idiotizzato. Sono animali e si comportano da animali. Animali che non dovrebbero avere il diritto di esistere. Una soluzione s’impone: immediata mente e quale che sia il metodo ». Il partito di governo non ha pronunciato una sola parola di condanna della soluzione finale proposta dall’amico Bayer.
Ma non solo in Est Europa i rom sono ritenuti liquidabili.
Indagini europee descrivono maltrattamenti anche in Italia, Francia. Nel nostro paese già
conosciamo la xenofobia della Lega: siamo i precursori di un fenomeno ormai continentale. Lo ha ricordato l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, in una lettera pastorale del settembre scorso. Chiedendosi se sapremo garantire diritti e dignità alla più numerosa minoranza europea ha detto: «Sento la vergogna di campi più o meno autorizzati che sono al di sotto della soglia di vivibilità, in cui crescono violenza e delinquenza». La «sempre più bassa aspettativa di vita dei Rom, in un Paese longevo come il nostro», è indice del loro stato di abbandono e povertà. Decerebrata, l’Europa dimentica perché decise di unirsi, dopo la guerra: lo fece perché non si ripetesse l’annientamento degli ebrei, dei Rom e Sinti, dei gay, dei malati di mente. L’Europa non può, senza perdersi, fare il muso duro con Atene e non con Budapest. Minacciare di cacciare l’una, non l’altra.
Il 2013 è stato proclamato Anno europeo dei cittadini, dunque dei diritti-doveri che comporta per ognuno l’acquisizione della cittadinanza europea, accanto a quella nazionale. Bruxelles ne è consapevole quando negozia l’adesione degli Stati, ponendo condizioni democratiche stringenti. Grecia, Spagna, Portogallo, e poi tutto l’Est Europa, entrarono nella Comunità quando si liberarono delle dittature. È il dopo-ingresso che non viene seguito, vigilato. Una volta dentro tutto diventa possibile: il ritorno dell’intolleranza, le Costituzioni democratiche offese, le chiese che reclamano nuovi poteri che non dovrebbero avere (sui corpi dei cittadini in primis: nascita, sesso, morte).
La Carta dei diritti, il trattato di Lisbona, i parametri del Fiscal compact: l’Europa è tutte queste cose insieme.
Solo così vien tolta centralità assoluta all’economia, e rimesso al centro quel che tocca a ogni costo salvare: lo Stato di diritto. Altrimenti non ci resta che l’Europa matrigna, e l’accidiosa rinuncia di cui parla Karl Popper: «Se la democrazia è distrutta, tutti i diritti sono distrutti. Anche se fossero mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governati, essi lo sarebbero solo sulla base della rassegnazione».
La Repubblica 16.01.13