Alla fine del mandato, dopo otto anni di regno sull’Eurogruppo, JeanClaude Juncker decide di dire la verità, la «sua» almeno. «Ho dubbi sul modello di risanamento che abbiamo applicato in alcuni paesi», confessa il lussemburghese. Pensa alla Grecia, in particolare, e non solo. L’austerità gli è parsa eccessiva, soprattutto rispetto agli scarsi progressi conseguiti nel sociale. «Stiamo sottovalutando l’enorme tragedia della disoccupazione che ci schiaccia – avverte -, occorrono politiche più attive». Ad esempio, «ogni paese dovrebbe introdurre un salario minimo per legge, così da impedire che la crisi pesi sul reddito delle fasce più deboli: altrimenti, perderemmo credibilità e il sostegno della classe operaia, ma non me la attribuite, non è mia, è di Marx».
Discorso d’addio, franco, non privo di battute salaci sui «filosofi del Nord», i signori del rigore condotti da Frau Merkel. «Il peggio è passato ha stimato Juncker davanti alla Commissione Economia dell’Europarlamento -, eppure ciò non toglie che ci attendano tempi difficili». Una linea precisa, la sua, la stessa (solo ben più tagliente) dei discorsi con cui il presidente della Commissione, Josè Manuel Barroso, e del premier di casa libcon Enda Kenny, hanno inaugurato ieri il settimo semestre di presidenza irlandese dell’Ue nei saloni del Dublin Castle verniciati di fresco. «Dobbiamo tenere ben da conto la grave situazione sociale di alcuni paesi – ha rilevato il portoghese -. E dobbiamo mettere tutte le risorse insieme per battere la crisi, il che richiede un ritorno della fiducia».
Barroso pianifica come da protocollo, elenca progetti e decisioni. Propone diligentemente l’agenda istituzionale delle cose da fare, il che appare essere proprio ciò che Juncker è arrivato finalmente a contestare nel suo «mea culpa» conto terzi. «Avevamo promesso che l’euro avrebbe corretto gli squilibri sociali». Invece nulla. Così il lussemburghese concede il suo rammarico per l’accordo dicembrino annacquato sul rafforzamento dell’Unione monetaria, «non c’è accordo sulla strada da imboccare nei prossimi anni, gli Usa e gli altri ci interpellano a proposito e noi abbiamo solo risposte di cortissimo respiro».
E’ la mancanza di ambizione che il capo uscente dell’Eurogruppo mette ai ferri. Ma anche un pericoloso dogmatismo, che lo riporta alla Grecia, per dire «che siamo divenuti arroganti, abbiamo dimenticato la storia e non amiamo chi non è come noi», se trascuriamo il ruolo che Atene ha avuto e può avere nella costruzione europea: «Nei confronti dei greci nutro una simpatia e un’amicizia che non è sempre stata condivisa dai filosofi del Nord», ovvero i tedeschi e gli altri falchi rigoristi. «Solo se amiamo gli altri possiamo toglierci dai guai», è il suo monito.
Il che riporta al sociale, l’imperativo di stagione coi 26 milioni di cittadini senza un posto di lavoro, e alla necessità di capire «che ogni paese ha bisogno di politiche differenti». Inoltre, «non si possono chiedere gli sforzi più grandi ha chi a meno, pensando che visto che sono di più la politica avrà successo». Il che, puntualizza, richiede un salario minimo sotto il quale non si possa andare, e «non è uno stupido gauchismo», perché «non dico che bisogna far pagare i miliardari, ma sono contrario al fatto che i miliardari non pagghino». Belle parole, indebolite dalla natura lussemburghese di paradiso fiscale.
Il messaggio è forte. L’Europa deve pagare il dividendo della crescita per non essere declassata dai cittadini. Ci sono la congiuntura che soffre e il lavoro che sanguina, mentre il risanamento di bilanci e banche non è ultimato. Juncker, come Barroso, è favorevole a un’azione retroattiva della Bce o del fondo salvastati Esm per la ricapitalizzazione del credito, l’Irlanda ne ha un bisogno disperato per non cadere ancora (e Berlino non vuole). Si deciderà in primavera. Intanto il lussemburghese rivela che alla testa del board per la vigilanza unica da varare quest’anno ci sarà una francese, Daniele Nouy, segretaria dell’autorità prudenziale della Banca di Francia. Poi conferma che il suo successore sarà olandese, come atteso, Jeroen Dijsselbloem. Juncker se ne andrà presto, con una tristezza. Gli hanno chiesto se sarebbe stato un presidente della Commissione migliore dell’attuale. Ha risposto «sì».
La Stampa 11.01.13