attualità, politica italiana

"La zattera dei naufraghi", di Pietro Spataro

La verità di nasconde in un dettaglio: ove vincessimo. Sta in queste due parole pronunciate da Berlusconi per annunciare l’accordo con Maroni, il senso di un disperato ritorno al passato. Non c’è bisogno di indicare il candidato premier, spiega il Cavaliere, lo faremo a suo tempo ove vincessimo. È la prima volta che l’uomo che ha marchiato la Seconda Repubblica, che ha usato in modo spregiudicato le proprie capacità mediatiche e che ha guidato la politica con le armi del marketing, ammette prima della partita la propria sconfitta. Quel patto, siglato a notte fonda nelle stanze di Arcore, non ha infatti alcun orizzonte davanti, è privo di qualsiasi strategia, si ferma sulle macerie dell’oggi e dimostra in modo chiaro lo spirito di sopravvivenza che ormai anima i due partiti che hanno governato l’Italia e sono stati travolti dalla crisi più grave. Berlusconi e Maroni si aggrappano l’un l’altro, sulla zattera dei naufraghi, nel tentativo di salvarsi. La Lega temeva di non avere il quorum e il Pdl rischiava di vedere ulteriormente ridotto il suo già esile potere di contrasto come forza di opposizione di un futuro governo di centrosinistra. Alleati per forza, quindi, ma senza alcuna forza.
In questa condizione sapere chi debba essere il candidato premier diventa davvero un fatto irrilevante. Maroni ha ottenuto che non sia Berlusconi. Berlusconi ha lanciato per l’ennesima volta Alfano. Maroni ha rilanciato perfidamente Tremonti. Solo nomi al vento, che non hanno alcuna chance di varcare la soglia di Palazzo Chigi. Uomini votati alla sconfitta in questa pericolante coazione a ripetere. Sarà difficile infatti sia per l’uno che per l’altro riuscire a spiegare ai propri elettori in fuga il senso di un’operazione così confusa e raccogliticcia. Berlusconi, dopo mille giravolte e incapace ostinatamente di farsi da parte per favorire un’evoluzione di tipo europeo del centrodestra, oggi si ritrova a cedere senza colpo ferire la sfida della Lombardia a Maroni che ha già in mano il Veneto e il Piemonte. È costretto a subire comunque l’onta della mancata candidatura a premier.
Sono lontani i giorni in cui il Cavaliere, nelle cene di Arcore con Bossi, dettava ogni scelta, comandava al Pirellone con Formigoni e in Veneto con Galan e forte del suo potere di interdizione finanziaria teneva a bada ogni sussulto, ogni richiesta, ogni ambizione. È la triste parabola di un leader che agli esordi era riuscito a interpretare lo spirito del tempo unendo le spinte degli egoismi sociali e il disprezzo per le regole, l’individualismo sfrenato e una certa rapacità imprenditoriale, il tutto condito da una vocazione presidenzialista di cui il Porcellum è stato il corollario indecente. Tramonta miseramente il grande illusionista della «rivoluzione liberale» che ha buttato per strada ogni elemento moderato per costruire nel tempo una destra ribellista, ideologica e antipolitica. E che oggi torna, tra pulsioni secessioniste e ossessioni anti-europeiste, in questo piccolo patto.
Se il Cavaliere, stretto in un cul de sac, forse non aveva altra scelta, sicuramente per Maroni il rospo da ingoiare è abbastanza più grande e il rischio personale più alto. L’«uomo della ramazza» si gioca in un colpo solo la sua immagine di leghista buono, arrivato a mettere ordine dopo gli scandali di Belsito e quelli che ancora in queste ore terremotano il partito di Roma ladrona. Piegandosi di nuovo a Berlusconi, rischia di frantumare anche i residui di quell’identità leghista che è stata il motore sociale del successo nel Nord. Non a caso la base è in rivolta perché non sopporta la nuova stretta di mano con il padrone di Arcore: sui social network è un fiorire di accuse di tradimento e di sbatter di porte per questa svolta improvvisa. Il sogno dei «barbari sognanti» si infrange, insomma, contro lo scoglio di un neo-berlusconismo senza più potere. Finisce in soffitta il lavoro di ristrutturazione della Lega che Maroni aveva tentato puntando sugli uomini meno compromessi con il vecchio regime, come il sindaco di Verona Tosi. Certo, il leader leghista incassa la candidatura per la Regione Lombardia ma proprio qui si gioca davvero tutto. È assai probabile che, in questa discesa agli inferi, perda sia quella, sia la leadership e quindi la possibilità di recuperare un elettorato ormai diviso tra l’astensionismo e la nuova demagogia anti-casta del grillismo.
Quali effetti avrà questa «alleanza dei perdenti» su un sistema politico in movimento è difficile dirlo. Sicuramente, essendo improbabile qualsiasi suo ruolo attivo nella formazione della nuova maggioranza di governo, porterà in scena una forte aggressività e darà spazio a nuove pulsioni antidemocratiche. Tutto questo, unito alle spinte regressive che guidano Grillo, rischia di condizionare non poco la vita del prossimo Parlamento. Davanti a questo vento populista che aleggia sul Paese e che stando ai sondaggi – tra Pdl, Lega e Cinque Stelle – potrebbe sfiorare il 40%, diventa ancor più incomprensibile la scelta di Mario Monti e del centro moderato, se dovesse tradursi in una vera equidistanza. Il né di qua né di là oggi è del tutto insensato. In certi momenti non è solo utile sapere, agenda alla mano, che fare. Ma soprattutto con chi stare per impedire che l’Italia precipiti nel baratro dell’ingovernabilità.

L’Unità 08.01.13