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"Università, lo spettro della valutazione", di Sabino Cassese

Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro della valutazione. S’era cominciato bene. Dopo una sperimentazione parziale, nel 2006 era stata costituita l’Anvur. L’Anvur cioè l’Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Suo scopo era di giudicare i risultati dell’attività svolta dalle università, per distribuire una parte dei finanziamenti ministeriali. Dunque, la valutazione centralizzata si riferiva a strutture, non a persone, riviste o altro, e doveva limitare la discrezionalità del ministero nella distribuzione dei fondi pubblici, per evitare che questi fossero assegnati con metodi sbagliati o clientelari.
Successivamente, con una serie di atti che vanno dal 2009 ad oggi, in parte imputabili al ministero dell’Università, in parte adottati dall’Anvur, ambedue presi da un delirio centralizzatore, la nuova agenzia si è messa a determinare tutt’altre cose, tra cui la scientificità della ricerca e i criteri, parametri e indicatori per la valutazione degli aspiranti commissari e dei candidati, ai fini delle procedure di abilitazione dei futuri insegnanti universitari. L’arma rivolta contro le cattive scelte politiche è stata rovesciata e rivolta dal ministero e dall’Anvur contro il mondo accademico.
Ma anche questi passi potevano condurre a risultati utili, se non se ne fosse fatto un altro, che porterà l’intera macchina della valutazione nel precipizio: è stato attribuito valore legale alla valutazione centralizzata, opera dell’Anvur e degli organismi collegati. L’assegnazione di un valore legale alla valutazione centralizzata consacra giuridicamente classificazioni in ordini gerarchici o categorie di riviste e di persone, fissando rigidamente livelli e giudizi che sono opinabili. Ad esempio, perché è importante una rivista, piuttosto che l’articolo che vi è pubblicato? Perché giudicare una rivista e non le sue singole annate? Vanno classificate anche le riviste straniere, e come? Il lungo silenzio scientifico di uno studioso non potrebbe essere dovuto a una “pausa creativa”?
In secondo luogo, in questo modo, ministero, Anvur e organi collegati, invece di svolgere l’utile funzione di fornire dati e indicatori agli studiosi, ai dipartimenti universitari e alle università stesse, accentra in larga misura la funzione di misurazione, valutazione e selezione, senza peraltro dare garanzie circa la bontà degli esiti della propria attività.
In terzo luogo, così, la valutazione centralizzata subisce una torsione: nata per limitare le scelte del ministero e orientarle alla distribuzione di mezzi finanziari alle università migliori, serve ora, all’opposto, a limitare o guidare la valutazione che le università e le singole comunità scientifiche debbono esprimere per reclutare i futuri insegnanti.
In quarto luogo, la strada della legalizzazione della valutazione centralizzata conduce inesorabilmente al giudice amministrativo. Così, giudice ultimo della valutazione di fisici, medici, psicologi, storici, non sarà l’Anvur, ma il tribunale ammi-nistrativo, al quale si rivolgeranno i molti scontenti. Con la paradossale conclusione che, mentre si predica di abolire il valore legale dei titoli di studio, si conferisce, invece, valore legale alla valutazione.
È naturale che, assunto l’Anvur il ruolo di Minosse all’entrata dell’Inferno, vengano avanzati ora dubbi sulla sua legittimazione, sui criteri di scelta dei suoi componenti, sulla selezione dei membri dei comitati di settore, sulla trasparenza delle sue procedure, sulla bontà dei dati con i quali giudica e manda, sulla completezza delle sue istruttorie, sulla motivazione delle sue decisioni.
Anvur e ministero hanno fatto un grosso errore trasformando la valutazione, che è necessaria come parte del lavoro scientifico, in un esercizio burocratico centralizzato. L’Anvur avrebbe dovuto raccogliere dati e indicatori, ponendoli a disposizione delle comunità scientifiche e dei singoli studiosi, oltre che delle commissioni di selezione del personale universitario. Avrebbe dovuto aiutare, in tal modo, il mondo universitario a fare scelte più attente. Non avrebbe dovuto stabilire scale di merito, dando ad esse valore vincolante e in parte sostituendosi al giudizio detto dei pari, cioè degli studiosi.
Ministero e Anvur potrebbero essere ancora in tempo per rimediare, togliendo ogni valore legale alle valutazioni centralizzate rivolte all’università e alle comunità scientifiche, senza farsi prendere dal desiderio di dare i voti a tutto e a tutti. L’Anvur raccolga i dati e i prodotti delle comunità scientifiche, elabori indicatori, standardizzi, aiuti e agevoli la valutazione da parte di università, commissioni, dipartimenti. Solo così la valutazione, che è utile, ed anzi, necessaria, sarà salva.

La Repubblica 07.01.13

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“Nuova rivoluzione nelle scuole dal 2014 fondi solo alle migliori”, di SALVO INTRAVAIA

Rivoluzione in vista per la scuola italiana sul modello della riforma delle università: gli istituti migliori avranno più soldi. La novità viene dal fondo di Funzionamento, è stata introdotta nella legge di Stabilità varata a Natale e dovrebbe scattare dal 2014. In Italia non esiste però un meccanismo in grado di valutare scientificamente le performance dei singoli istituti. La scuola si prepara all’ennesima rivoluzione: più soldi agli istituti migliori. La novità per il cosiddetto fondo di Funzionamento delle oltre 9mila istituzioni scolastiche italiane dovrebbe scattare dal 2014. Una idea che richiama alla mente lo stesso sistema, lanciato dall’ex ministero dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che oggi assegna più risorse alle università italiane più meritevoli. Peccato che in Italia non esista un meccanismo in grado di valutare scientificamente le performance dei singoli istituti. Un fatto che porta i sindacati a bollare questa norma – introdotta nella legge di Stabilità varata lo scorso 24 dicembre, comma 149 dell’articolo 1 – come una cosa “irrealizzabile”.
Il provvedimento è chiaro: “A decorrere dal 2014 i risultati conseguiti dalle singole istituzioni sono presi in considerazione ai fini della distribuzione delle risorse per il funzionamento”. Un ragionamento che non fa una piega. Ma che per Massimo Di Menna, a capo della Uil scuola, «si tratta di una norma scritta in modo approssimativo». «La cosa migliore – spiega – è che il prossimo governo non tenga conto di questa norma scritta con superficialità». La posta in gioco è alta, basta citare i dati di due anni fa quando le scuole ricevettero dal ministero – e dagli enti locali – quasi 2 miliardi e mezzo di euro per le cosiddette spese di Funzionamento didattico e amministrativo. Con queste risorse la scuola riesce a coprire a malapena le spese l’acquisto della cancelleria e del materiale di pulizia, le spese postali e telefoniche e quelle per l’acquisto di libri e riviste scientifiche, dei materiali e la manutenzione degli strumenti da utilizzare nei laboratori. Ma non solo: le spese di funzionamento servono a fare camminare la macchina scolastica. «Non riusciamo a comprendere – confessa Domenico Pantaleo, leader della Flc Cgil – la logica di questa norma e cosa si intenda per “risultati”».
«In Italia – continua – non c’è un sistema di valutazione collaudato. E poi, che senso ha legare le risorse per il funzionamento ad ipotetici risultati
ancora tutti da verificare?». Gli unici dati al momento disponibili per valutare le performance delle scuole sono i risultati dei test Invalsi in Italiano e Matematica sugli alunni della scuola elementare, media e superiore e i dati sui promossi e bocciati.
Ma è fin troppo evidente che le prove standardizzate risentono delle condizioni socio-economico-culturali del contesto: non è la stessa cosa fare scuola a Scampia o al centro di Milano. Per valutare le scuole meritevoli si potrebbe anche ricorrere ai dati sulla dispersione scolastica, appoggiarsi ai risultati dei test internazionali o mettere in piedi un complesso sistema di valutazione ad hoc.
«Un sistema di valutazione serve senz’altro – osserva Di Menna – ma sarebbe serio costruirlo in 4 anni e spendendo quanto si spende in Francia». «E ammesso che si possano verificare gli apprendimenti, qual è la ratio che porta a tagliare le risorse alle scuole con risultati peggiori? Semmai, occorrerebbe assegnare a
queste scuole più risorse».

La Repubblica 07.01.13