È interessante assistere alle esibizioni televisive del presidente del Consiglio, vedere le parole che usa, i concetti su cui insiste. Quale è il centro di questo messaggio? È il primato della cosiddetta «società civile» nei confronti della «politica». Quella stessa politica rispetto alla quale il presidente del Consiglio non si stanca di ribadire la sua lontananza, anzi la sua estraneità. Da qui discende una serie di corollari che egli scolpisce con notevole vigore retorico: 1) come la maggior parte degli italiani ai quali si rivolge con spirito professorale, anche lui sa quanto la politica italiana sia diventata una palude da cui bisognerebbe tenersi lontani; 2) ha deciso di prendere posizione, perché ci sono momenti nei quali anche i più riluttanti devono sporcarsi le mani, mettendo in gioco la propria persona e il proprio ruolo; 3) intende farlo senza identificarsi con una parte, guardando con occhio di ghiaccio all’«interesse generale» del Paese e buttando a mare antiche categorie come quella di «destra» o di «sinistra» che non rispecchiano più lo stato delle cose; 4) vuole essere riformatore, cioè moderno, ma in forme nuove, avviando una nuova epoca della nostra storia; 5) per farlo si propone di «ritornare ai principi» (direbbe Machiavelli), cioè ridare la parola alla «società civile» di cui tesse l’elogio con lo stesso trasporto di un economista del Settecento.
Con questo torniamo all’architrave del suo discorso: la «società civile», intesa come il luogo delle energie primigenie del Paese, calpestate dalla politica e dallo Stato («Paese»: lemma che, se non mi inganno, Monti preferisce a quello di «Nazione»). E tutto è presentato con stile, parole e gesti adeguati e convergenti nel mostrare che nell’arena politica Monti è stato costretto a scendere per senso di responsabilità, non per ambizione personale o altri motivi poco nobili. Se però lo stile è nuovo e rispettabile, non sono nuovi né il richiamo alla «società civile», né l’ideologia conservatrice in cui esso è situato. Anzi. Quando gli storici futuri studieranno il lessico politico della Repubblica, potranno constatare che l’espressione «società civile» è stata, nei nostri anni, una delle più frequentate, in contesti diversi ma con due caratteri comuni: è usata in genere da quelli che si sono presentati come iniziatori di un nuovo ciclo della storia nazionale; questo nuovo inizio si è espresso costantemente in una critica, talvolta in un rifiuto delle forme ordinarie della politica che a sua volta si è risolto generalmente in una discesa (o in una «salita»: bel colpo retorico anche questo) alla politica di tipo strettamente conservatore imperniato sui valori sopra citati (interesse generale, fine della destra e della sinistra, rifiuto del moderatismo ed elogio del radicalismo «centrista»: un ircocervo degno dei fratelli Grimm….).
Da questo punto di vista non c’è rottura fra Monti e il berlusconismo. Sul piano ideologico sono utilizzati gli stessi strumenti, con lo stesso obiettivo: mantenere al potere, con gli ammodernamenti indispensabili, le classi dirigenti tradizionali, senza toccare, non dico i rapporti proprietari, ma la condizione del lavoro e la «questione sociale», di cui non c’è mai alcuna traccia nelle allocuzioni di Monti. E impedire, soprattutto, che le forze del cambio arrivino al governo del Paese.
Quelli che mutano sono però i contenuti specifici di questa ideologia: per Berlusconi il richiamo alla società civile era un mezzo per risvegliare gli spiriti animali e gli istinti individualistici, spezzando ogni vincolo di carattere comunitario; nel caso di Monti sono presenti motivi del societarismo cattolico, resi evidenti dalla presenza nella sua lista di personalità come Riccardi e dall’aperto consenso dell’Osservatore romano. Ma l’obiettivo è chiaro, ed è stato ben esplicitato da Casini, dallo stesso Riccardi e anche dal lessico traditore, ma rivelatore del presidente del Consiglio quando ha invitato Bersani a «silenziare» Fassina e la Cgil. Del resto, per questo Monti è sceso in politica: per dare a questa operazione un respiro europeo e mettere in campo una leadership come la sua in grado di raccogliere un ampio arco di forze politiche e sociali, in grado di contrapporsi alle scelte strategiche che un forte e autonomo governo di centrosinistra sarebbe in grado di fare.
Dal suo punto di vista Monti ha ragione: in Italia è in corso una battaglia decisiva su chi guiderà il nostro Paese nei prossimi decenni. E in queste elezioni sono di fronte due schieramenti sociali, certo variamente articolati ma che tali restano, nonostante le tante chiacchiere sulla fine della destra e della sinistra.
Ma l’insistenza sulla società civile ha altri significati, di carattere propriamente ideologico. La battaglia che si sta svolgendo coinvolge, con quello politico, anche il piano dei valori, né è difficile immaginare le trombe che Monti e i suoi seguaci faranno suonare in campagna elettorale: Europa, modernità, sviluppo, credibilità del Paese e delle sue «nuove» classi dirigenti. E appunto primato della «società civile», con due obiettivi precisi: ribadire anzitutto che Pd è espressione di un vecchio mondo, di un’epoca finita insieme a Berlusconi e perciò incapace di «modernizzare» il Paese, come è invece possibile fare se si sceglie un leader capace di rivolgersi alle energie sane e vitali del Paese cioè alla società civile -, cancellando la «vecchia» politica. E poi legittimare e valorizzare, sia sul piano ideologico che elettorale, il confluire nella sua lista di importanti rappresentanti del mondo cattolico, reso a sua volta possibile da importanti elementi comuni: il netto rifiuto del concetto di classe, l’interesse per modelli «produttivistici» incentrati sulla collaborazione tra capitale e lavoro e, appunto, il «societarismo».
È giusto, ed è saggio, non alzare il livello della polemica, pensando alle scelte che potranno diventare necessarie dopo le elezioni. Ma al di là della scorza retorica, questa è la sostanza del discorso di Monti sulla «società civile», ed esso carica di responsabilità il centrosinistra e anche i cattolici che hanno scelto di stare da questa parte dello schieramento. Siamo a un passaggio decisivo, destinato a cambiare in un senso o nell’altro il volto dell’Italia, anche sul piano degli ideali e degli obiettivi comuni, condivisi. Perciò è necessario che il centrosinistra faccia sentire con energia la sua voce, e data l’entità e il carattere della posta in gioco, è indispensabile che esso proclami con forza la sua visione dell’Italia e del futuro in una parola: i suoi valori ultimi e penultimi, raccogliendo tutte le forze interessate al cambiamento -. Un cambiamento effettivo, non retorico, come troppe volte è accaduto nella nostra storia.
L’Unità 06.01.13