È ormai appurato il nesso tra il declino sociale dell’Italia e l’anomalia del populismo. Se per populismo si intende l’irruzione di un capo che trascende la mediazione politica organizzata per abbracciare la gente indistinta in un contatto assorbente, tolto il Pd, continua per tutti gli altri il gran carnevale dell’antipolitica. Vecchi e nuovi leader danzano con le maschere del populismo sul corpo gracile di un paese in affanno. In una fenomenologia del populismo italiano, si rintracciano cinque varianti di una mobilitazione irregolare che, nelle sue esuberanze espressive, si discosta dal registro delle democrazie rappresentative consolidate.
Continuano anzitutto le manifestazioni di un caricaturale etno-populismo mimato dalla Lega. Nel nudo territorio essa rinviene i tratti della spiritualità paganeggiante ed estrae i valori della appartenenza come un senso della geocomunità coesa da scagliare contro le élite al potere, contro qualsiasi irruzione di culture altre. Si attarda ancora sulla scena anche il populismo-patrimoniale-mediatico incarnato da Berlusconi e specializzato nella eterna denuncia di complotti e di arcane macchinazioni di oligarchie che ostacolano il lavoro salvifico del capo.
Indebolito dai fiaschi ripetuti registrati nel lungo governo, il vetero populismo del Cavaliere e della Lega è però ancora in auge perché interpreta la sopravvivenza di una alienazione politica mai spenta nelle viscere di un agguerrito blocco sociale aggrappato ad una ricchezza che lievita sull’immobilismo e sulla mortificazione del pubblico. Ad un antico filone del populismo, emerso già negli anni ’90, si riaggancia anche l’avventura verbalmente rissosa di Ingroia. Con l’ipertrofia del capo, il cui nome è scolpito a caratteri cubitali nel simbolo, il partito personale del magistrato maltratta la funzione aggregativa della rappresentanza politica. Il nuovo soggetto declina in un modo monco la legalità enfatizzandola come una esemplare azione penale-repressiva affidata ad un procuratore eroe. Scompare invece la legalità colta anche come una aderenza allo spirito della Costituzione, quello oggi impunemente violato e che ad esempio non tollera l’aberrazione dei partiti personali.
Una variante più recente (ma dalle radici antiche) della sempre fiorente fabbrica del populismo è da considerarsi l’antipolitica inscenata dal comico genovese, ostile alla rappresentanza, alla mediazione. È, quello del comico, un populismo della semplificazione, che va alla ricerca di comodi capri espiatori cui imputare la colpa di crisi, epidemie, malanni.
Dietro la facciata di una ventata di iperdemocrazia affidata alla magia dialogica della rete, operano gli arcani poteri personali-privati del capo, di fatto insindacabile. Anche in Grillo la metafisica del popolo sciolto da ogni differenza e verticalità («uno vale uno») conduce ad un dominio assoluto del capo e alla espropriazione di spazi di libertà, di deliberazione. Solo il corpo del comico che regna il non-partito è visibile in pubblico e mostrato nei media nel corso delle sue gesta. Il resto del movimento è condannato all’irrilevanza e all’astensione da ogni presenza nella rappresentazione.
Il novello tecno-populismo di Monti non è meno estraneo alle forme classiche della democrazia. A parte la vocazione catenacciara, per così dire, di una lista che non corre per vincere ma per impedire che altri vincano, sono evidenti nella creatura dei ricchi potentati finanziari i connotati culturali del populismo. Alla venatura aziendalista (un esperto valuta la capacità dei candidati, scruta la loro conformità ai requisiti richiesti dal leader: ciò equivale ad una riedizione della ottocentesca rappresentanza della capacità, soppiantata in occidente dalla rappresentanza politica, che è sempre di volontà, di opinioni), Monti affianca la solitudine di un leader che dichiara sepolte le antiche mappe della politica (e intima perciò di “silenziare” il senso critico) per cavalcare una sua legittimazione in nome della competenza rannicchiata al potere.
Per la genesi (da un qualche bonapartismo dei tecnici, che prima occupano il governo senza passare per il voto e poi creano un partito per rimanervi, nel vuoto di ogni controllo e possibile censura parlamentare), per la scenografia (all’esoterico richiamo di un convento di suore, nelle mosse creatrici del movimento si aggiunge il contatto telefonico con il ricco imprenditore in vacanza che impartisce ordini e contratta spazi), l’esperienza di Monti segna una tappa tipica del populismo di un capo ostile alla forma partito e alla partecipazione di energie collettive. Accanto a un Pd assimilabile ad una grande formazione del progressismo europeo, sfilano dunque cinque sigle liquide, contrassegnate dal rischio populista. Con questi simboli che evocano un’anomalia, una devianza, un problema l’Italia rischia di perdere di nuovo il treno della modernizzazione.
l’Unità 05.01.13