Mancano meno di due mesi alle prossime elezioni, l’attenzione si concentra, come ovvio, sulle candidature e sulle future alleanze; tuttavia si avverte una diffusa sensazione di ripartenza, di possibilità di riscrittura che non si avvertiva da tempo. Complice una crisi di portata storica che coinvolge tutto e tutti: che attraversa l’economia, l’ambiente, la politica, la vita quotidiana delle persone. E quindi tocca pensare. Cosa vogliamo? O meglio: di cosa abbiamo bisogno? E cosa vogliamo fare per ottenerlo?
Chiedere ai candidati di occuparsi di “politiche alimentari”, ovvero di ripensare, ridisegnare, quelle che finora sono state, in modo impreciso, inadeguato e insufficiente, chiamate “politiche agricole”, non è cosa di poco conto per il futuro di questo Paese.
Su questo terreno vale la pena di sottolineare quelle che secondo me dovrebbero essere le priorità del prossimo governo centrale, ma anche dei prossimi governi regionali, dato che anche alcune regioni rinnoveranno i loro amministratori tra poche settimane.
Quattro punti, quattro pensieri, quattro piccoli ma forti pilastri su cui appoggiare un nuovo modo di pensare l’agricoltura di questo paese; una miniagenda, se volete, quasi un foglietto di appunti.
1 — Politiche alimentari significa politiche condivise e interconnesse: ambiente, agricoltura, educazione, salute, economia, giustizia, sviluppo, industria, beni culturali. Dove inizia un settore e finisce l’altro? Non si può dire, non esiste confine. Se si fa politica per il cibo e per l’agricoltura si fa, finalmente, politica per tutti, si tutela il bene comune. Come si fa? Non lo sappiamo fare perché non l’abbiamo mai fatto. Ma un tavolo condiviso, un posto in cui tutti i ministri e tutti gli assessori verificano, prima di vararli, la coerenza dei provvedimenti di cui si fanno portavoce sarebbe un buon inizio.
2 — C’è un disegno di legge già approvato che attende di diventare legge. È stato ribattezzato “Salva suoli”. L’ha presentato il ministro Mario Catania, che l’ha scritto e migliorato con la collaborazione delle Regioni e della rete di associazioni della società civile. Serve a porre, sia pure con imperdonabile ritardo, fine alla dissipazione del suolo agricolo italiano, alla cementificazione ignorante che ha devastato il nostro territorio e di cui paghiamo il prezzo in dissesti e vite umane ad ogni temporale. È un lavoro facile, è quasi tutto fatto. È solo un lavoro da finire, e i candidati che nelle prossime settimane si diranno a favore della protezione del territorio italiano provino a dirlo in modo più chiaro: dicano che si impegneranno perché quel disegno di legge diventi al più presto una legge nazionale.
3 — Le nostre campagne hanno bisogno di ripopolarsi. Perché il made in Italy passa dai campi e dalle mani dei nostri produttori. E le mani dei produttori oggi sono rugose, sono stanche, sono mani anziane. E spesso sono mani che non sanno a chi consegnare tutta la loro esperienza e tutti i loro saperi. E, come si sa, i nostri giovani hanno bisogno di lavorare. E di sentirsi protagonisti di quello che producono e di quello che diventano. L’agricoltura può dare a un giovane tutto questo, a patto che smetta di essere sinonimo di emarginazione sociale e di difficoltà economica. E a patto che accedere al lavoro agricolo smetta di essere una specie di corsa a ostacoli, contro la burocrazia, le normative sproporzionate, l’impossibilità di accedere a crediti ragionevoli. Quindi i candidati che nelle prossime settimane intendono parlare di lavoro giovanile potrebbero intanto impegnarsi a facilitare questa fetta di lavoro giovanile: quello in agricoltura. Perché sono tanti i giovani che ci stanno provando, e, nonostante tutto, ci stanno riuscendo. Ma sono tantissimi i giovani che ci stanno pensando e che rinunciano prima di provare perché le difficoltà sono davvero troppe.
4 — E infine, un compito facile facile. Decidiamo una volta per tutte che agricoltura serve al nostro paese. Un paese fatto di milioni di piccole aziende agricole. Un paese che ha il biologico tra i suoi vanti. Un paese che basa la sua ricchezza sulla biodiversità di razze animali, varietà vegetali domesticate e spontanee, di prodotti tipici e delle tante biodiversità che quelle implicano: la biodiversità delle sementi tradizionali, dei microrganismi del suolo, delle agricolture tradizionali. Ecco, cosa serve a un paese così? Non serve un’agricoltura di brevetti, non serve un’agricoltura di multinazionali, non serve un’agricoltura di contoterzisti. Non servono gli Ogm. Semplicemente non servono. E già questo basterebbe a richiedere un impegno per fare in modo che vengano esclusi dal nostro futuro alimentare. Se a questo si aggiungono i tanti punti non ancora chiariti a proposito delle colture Ogm, la necessità di continuare ad investigare e a fare ricerca per definirne con chiarezza i possibili impatti sull’ambiente, sulla salute e sull’economia risulterà chiaro che appellarsi al principio di precauzione sarà la cosa più ovvia da fare, decidendo che il nostro paese resta Ogm free. Quindi quei candidati che nelle prossime settimane parleranno di green economy, potrebbero partire anche da qui: dal più vasto settore di green economy che abbiamo, da sempre, sotto gli occhi: l’agricoltura sostenibile.
Ecco, una mini agenda, se volete; o meglio, un bigino – si parva licet componere magnis – da portare con sé lungo la prossima legislatura. Perché questo terzo millennio sarebbe proprio ora che iniziasse.
La Repubblica 04.01.13