Il nostro problema», dice lo splendido Daniel Day-Lewis nel «Lincoln» di Steven Spielberg, «è l’incapacità a comunicare l’uno con l’altro». Il presidente americano si riferiva al dialogo tra sordi tra repubblicani e democratici sulla questione della schiavitù nel 19° secolo ma la frase funziona ancora nel 21° secolo. Anzi è lo slogan perfetto per descrivere gli interminabili negoziati tra gli stessi due partiti sul «burrone fiscale», la combinazione di tagli di spesa e aumenti di tasse che negli ultimi mesi ha paralizzato Washington e messo a rischio la ripresa dell’economia americana.
Dopo aver portato gli Usa sull’orlo del «fiscal cliff», il precipizio fiscale, la Casa Bianca e i repubblicani al Congresso hanno trovato un accordo poco prima della fine del 2012, pieno di compromessi, mezze misure e decisioni rimandate.
Le imposte sui redditi verranno aumentate per la prima volta in vent’anni ma solo per i più ricchi: chi guadagna $ 400.000 l’anno, o coppie che insieme guadagnano $ 450.000; le stesse persone pagheranno tasse più alte sulle plusvalenze, dal 15% attuale al 20% che era in voga all’epoca di Clinton, mentre le tasse di successione saliranno dal 35% al 40% per eredità superiori ai 5 milioni di dollari.
Per quello che riguarda le riduzioni di spesa, invece, 110 miliardi di dollari di tagli già decisi sono stati rimandati di due mesi perché non c’era accordo sul come procedere.
Tutto qui? Dopo settimane e settimane di logorroici dibattiti e accuse incrociate all’altro partito di non volere «mettere ordine nella casa fiscale degli Usa»? Il patto di capodanno evita il crollo nel burrone economico ed il ritorno della recessione ma non risolve nessuno dei problemi fiscali e di deficit che gli Usa si portano dietro ormai da anni.
E le incertezze non sono solo economiche. L’America che si è specchiata nei litigi dei partiti sul «fiscal cliff», si è trovata divisa, irritabile e polarizzata – un Paese non sereno e poco sicuro di sé che guarda con ansia al futuro.
«Come mai è così difficile trovare un accordo?» mi ha chiesto la settimana scorsa un vecchio lobbista di Washington, uno che di battaglie politiche ne ha viste e vissute eppure non riusciva a capire il nulla di fatto sul «fiscal cliff».
La realtà è che gli Stati Uniti si trovano in un momento particolare della loro storia. I due partiti condividono il potere (i democratici hanno la Casa Bianca e il Senato, i repubblicani la Casa dei Rappresentanti) ma sono nettamente distanziati sul piano ideologico e politico.
Entrambi sono stati messi sotto pressione da ali estreme: il «Tea Party» di Sarah Palin per i Repubblicani e la sinistra dei ragazzi di «Occupy» per i Democratici. Il risultato è un divario ideologico che i tradizionali giochi di potere di Washington non riescono a colmare.
Come mi ha detto un veterano dell’amministrazione di Bill Clinton l’altro giorno, «Washington non funziona più perché i due partiti sono stati costretti ad uscire da Washington».
Le discrepanze sul burrone fiscale sono solo un sintomo di un malessere ben più profondo: l’America è spaccata a metà – dal punto di vista economico, politico e sociale. La sperequazione tra ricchi e poveri è ai livelli più alti del dopoguerra e le difficoltà degli ultimi anni – il crollo del mercato immobiliare e gli altissimi livelli di disoccupazione – hanno esacerbato la divisione tra gli «haves» e gli «have nots», «chi ha» e «chi non ha».
Il welfare state, una delle pietre angolari della società americana ed uno strumento importante di ridistribuzione economica, è sull’orlo della bancarotta per motivi demografici – troppi vecchi che si prendono la pensione e le medicine a poco prezzo e non abbastanza giovani per pagare i conti – e politici: la riluttanza storica di Washington ad aumentare le tasse.
L’accordo sul «fiscal cliff» doveva essere l’inizio della soluzione ed invece è diventato l’ultimo problema. Le divisioni politiche e la litigiosità del sistema di governo Usa hanno fatto sì che nessuna delle questioni strutturali del debito pubblico e welfare state verrà affrontata.
Vi dò un esempio. Nel 1965, il debito pubblico degli Usa era pari al 38 per cento del prodotto interno lordo. Oggi è al 74 per cento. Tra un decennio sarà un insostenibile 90 per cento e arriverà al 247 per cento tra trent’anni. Nessun Paese può vivere con questi numeri, figuriamoci l’economia più grande del pianeta.
Ma il patto tra la Casa Bianca ed i repubblicani non fa assolutamente nulla per ridurre quei numeri spaventosi perché rifiuta di far fronte alla scelta fondamentale, e difficilissima, che è di fronte agli Stati Uniti: ridurre le dimensioni del welfare state, tagliando servizi, o aumentare le tasse in maniera decisiva per pagarne le bollette.
Nessuno dei due ingredienti è nella ricetta utilizzata dal vice-presidente Joe Biden e i leader repubblicani per il patto di capodanno. Ed è per questo che l’accordo è rachitico. Un patto piccolo piccolo che permette di dire a Barack Obama e alla leadership repubblicana che l’intesa è stata trovata ma i cui effetti saranno effimeri, come i fuochi d’artificio di capodanno.
Dov’è Lincoln quando ne abbiamo bisogno?
* È il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
La Stampa 02.01.13