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“Morta per stupro”, di Claudia Fusani

Armati di candele, pennarelli e cartelli hanno marciato sull’India in un silenzio che spacca le orecchie e le coscienze. Davanti a un governo incapace e sordo e a una polizia che ieri ha avuto l’ordine di non usare gas, bastoni e idranti. Hanno marciato uniti, da New Delhi a Bangalore, da Kolkota a Mumbay fino a Chennai e poi urlato tutti insieme: «La tua battaglia è ora la battaglia dell’India», «Vogliamo giustizia e la vogliamo subito». Decine di migliaia di ragazze e ragazzi mescolati in una sfida che sanno essere non di genere ma di civiltà e democrazia; donne e uomini, a volte in file separate, ma fianco a fianco: sono loro la nuova borghesia (300 milioni su una popolazione di un miliardo e 200 mila) cresciuta in vent’anni di straordinario progresso economico, sono loro che ieri sera hanno risposto all’appello. Una veglia oceanica e pacifica che continuerà fino funerali della studentessa di 23 anni stuprata da una branco di sei ragazzi la sera del 16 dicembre e morta in un ospedale specializzato di Singapore dove era stata trasportata mercoledì nell’estremo tentativo di salvarla. La storia di Nirbhaya così la chiamano i giornali è già un pezzo di storia di questo paese. «La tua morte scuote le nostre coscienze», «India, ultima chiamata», «Se non ci svegliamo ora non lo facciamo più», hanno scritto i ragazzi sui cartelli.
«VERGOGNA NAZIONALE»
Se non ora, quando? Quando dire basta a una «vergogna nazionale» con numeri da brivido? Eccoli: 24 mila casi di stupro denunciati nel 2011 (dieci volte di più rispetto al 1971), di cui 568 solo a Delhi; una donna uccisa ogni ora per impossessarsi della sua dote (dati Ufficio Nazionale Indiano); negli ultimi trent’anni, 12 milioni di bambine sottoposte ad aborto selettivo per evitare la nascita di femmine; il 10,6% delle vittime di stupro con meno di 14 anni; il 94% di chi subisce violenza conosce il suo carnefice. E poi la cronaca degli ultimi tre giorni: una ragazza stuprata tre giorni fa proprio a Delhi; un’altra che s’è tolta la vita in Punjab perché quando è andata a denunciare la violenza la polizia le ha consigliato di sposare chi aveva abusato di lei. Le veglie indiane dicono basta a tutto questo.
«Light a candle in her memory», accendi una candela per ricordarla, è stato fin da ieri mattina il passaparola sui social network, megafoni e anche registi della protesta. Distese di candele poco dopo il tramonto nelle grandi città simbolo della nuova India, al parco Jantar Mantar di New Delhi, al Freedom Park di Bangalore, alla Juhu Beach di Mumbay e al memoriale di Gandhi a Lucknow, capitale di Uttar Pradesh. Il governo di Sonia Gandhi, capo del partito del Congresso che ha la maggioranza in parlamento, ha avuto paura. Tanta. Paura nelle scorse settimane quando ha represso le manifestazioni pacifiche all’India Gate, il distretto politico della capitale, che invece andavano ascoltate. Paura ieri mattina quando è partita la chiamata sui social network e sulle tv all news. Ha vietato i prati e i viali intorno a India Gate (in serata aperti di nuovo). Ha chiuso molte stazioni della metropolitana. Ha sbagliato di nuovo. E sembrano arrivare troppo tardi le parole di Sonia: «Vi assicuro che abbiamo sentito la vostra voce. Questa morte non sarà vana. La figlia dell’India avrà giustizia». In queste due settimane lei, il primo ministro Singh e la maggior parte del parlamento sono rimasti passivi, incapaci pare di comunicare con la parte più giovane del paese dove vivono 800 milioni di under 30, pronti solo ad ordinare alla polizia di caricare i manifestanti che avevano bloccato la capitale. Quando ieri Shiela Diksheet, capo del governo di Dehli, parlamentare e nota attivista femminista, è andata tra i manifestanti a Jantar Mantar per mettersi dalla parte delle ragioni della protesta, è stata cacciata: «Giù le mani da questa figlia dell’India. No a speculazioni politiche su questa morte».
Il paese che per primo nel 1966 ha mandato al potere una donna che si chiamava Indira Gandhi, si scopre essere il meno sicuro per le donne e tra i più misogini. «Vogliamo camminare nelle strade senza dover abbassare lo sguardo» dicono le ragazze con le candele accese. «Vogliamo pene più severe e tribunali speciali per questo tipo di reati». Adesso il governo parla di commissioni d’inchiesta, di pubblicare online le liste degli violentatori già noti, di usare poliziotte per i reati dove le vittime sono donne e bambine. Il 2 gennaio la polizia presenterà un atto di accusa lungo mille pagine contro i sei arrestati, ora accusati di omicidio. Rischiano la pena di morte. Sono originari di uno slum, il Ravi Dass Camp, a sud di Delhi. La gente ora grida «hang them», impiccateli. È una rabbia che non si può fermare. Un fallimento prima di tutto politico.
L’Unità 30.12.12