Più di cento donne ammazzate in un anno, spesso dopo lungo stalking. Uomini inseguiti e massacrati per uno sberleffo, un insulto, una prepotenza alla guida o per uno stupido furto. Gli assassini d’impeto o covati fanno vittime quanto e più del crimine organizzato. Dietro a tutto ciò – salva la fantasia di un parroco che riesce a immaginare provocanti le vittime stremate da una persecuzione – c’è un senso della morte sfumato dalla sacralità alla banalità, dalla scelta estrema al facile colpo di spugna che spazza via disegni o scritte su una lavagna che non si è capaci di sopportare.
Sono fondamentali le considerazioni sul massacro di donne – talora amate in modo malato e ossessivo – ma non si deve trascurare l’origine più profonda del gesto omicida in generale in questa epoca: lo svuotamento dell’idea di morte, strumento risolutivo con impressionante leggerezza di qualunque fatica metta a repentaglio l’egoistica quiete, più che un’improbabile serenità, del vivere. La morte è per molti orfana della sacralità che emanava, del mistero che la contornava e ne accentuava la percezione. Vediamo uccidere e poi costituirsi senza pensiero di pena per la vittima (talora è rancore, lacrime che gridano: ecco dove mi hai portato), senza pentimento né tormento, indifferenza per il carcere, spossatezza dopo l’annientamento dell’ossessione. È successo tutto come se fosse stata la lettura di un libro fino al capitolo che mette paura e orrore, mette alla prova la capacità di reggere e misurarsi: allora, anziché passare oltre, scivolare a un altro capitolo, si butta, si calpesta, si brucia l’intero libro.
Se qualcosa è rimasto immutato nell’uccidere quel qualcosa sta di casa nel crimine organizzato, dove l’assassinio è strumento di lavoro, mezzo per garantirsi il predominio, punire tradimenti o sgarri. Una cosa soltanto è cambiata, si è «affinata», quando alla regola che rispettava donne e bambini si è sostituita una logica appresa dal terrorismo: tremate tutti, non ci fermiamo di fronte a nulla, nulla ci fa paura. In realtà una paura forte la provano: paura della cultura della legalità e della cultura in genere, da qui l’odio per i Luigi Ciotti, i Roberto Saviano.
La cultura è sparita dalla morte nel quotidiano, maneggiata come straccio sulla lavagna, gesto del bimbo che si copre gli occhi «e non esiste più il pericolo», dito ansioso sul telecomando per mutare il film spiacevole dentro cui si vive, come Peter Sellers in «Oltre il giardino». L’omicidio ha sostituito con agghiacciante naturalezza la spallata, la scazzottata di un tempo. Lo sciagurato che si sentiva deriso al bar per le intemperanze della moglie ristabiliva l’onore di lei e la dignità propria riempiendo di botte l’incauto davanti a tutti. Oggi tace, va a casa, prende la pistola, torna con quel «telecomando» in tasca, e spara: con l’uomo che offendeva il proiettile cancella magicamente anche le corna. Il problema non c’è più. Ne verrà un altro, d’accordo, con processo, carcere, ma è un libro nuovo, intonso, senza gravami assillanti.
Fragili personalità sono sempre meno attrezzate ad affrontare avversità, accettare sconfitte: ciò che un tempo era delusione, amarezza, oggi è ira e rancore,se sto male la colpa non può che essere degli altri. Mia moglie non mi vuole più perché bevo e sono violento, ma è colpa sua se bevo e sono violento, la odio ma è mia, quindi cancello tutto, la pistola come il tasto reset. In questa lievità dell’ammazzare giocano spesso un ruolo alcol, anfetamine, cocaina, con i cervelli sfrangiati dalla polvere e consegnati alla perdita di controllo e all’onnipotenza.
Alla morte senza sentimento ci si è abituati perché è ovunque senza orpelli né timidezze, è nel film d’azione o nel thriller, è nel continuo rimestare la cronaca nella tv d’intrattenimento, è spettacolo del pomeriggio tra un monologo di leader di partito e lo sguardo azzurro di zio Misseri, è nella sbrigativa criminologia da teleschermo e nella passione morbosa per gli «scavi» dei medici legali . È una sfilata di routine su YouTube, dove si può ammirare un pestaggio o la spinta che lancia una vita sui binari della metro. La morte ha perso rispetto a ogni livello, anche nelle più alte istituzioni. Di fronte al corpo di Eluana Englaro, ridotto a un interminabile inverno dal coma vegetativo, di fronte a una morte scontata per anni, non un ciarlone da bar ma l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non riuscì a trovare altro aggancio alla vita se non quello sessuale: «Mi dicono i medici che può perfino restare incinta».
La società è spaccata in due. Di qua la vulnerabilità di anziani e malati e di quanti – medici, paramedici, volontari, parenti, sacerdoti – hanno a che fare giorno su giorno con il transito alla morte, dove ogni addio è unico, carico di dolori e fatiche, speranze e pace. Di là gli altri, per i quali reale e virtuale sono amalgamati, dove l’assassinio guardato e riguardato in Internet è insieme cronaca e spettacolo, sorpresa e routine, emozione e assuefazione. Nelle case contadine russe, racconta la letteratura, i bambini giocavano nell’unico stanzone, dove la mamma cucinava, e ogni tanto andavano al centro di esso per dare una carezza al nonno che stava passando a miglior vita. Non era assuefazione, era «conoscenza» che accendeva rispetto.
Sempre meno si apprende il senso della vita e della morte – e del passaggio dall’una all’altra – dal dialogo con narrativa, musica, arte oltre che dai lutti. La morte della Morte sta avvenendo per inedia: prosciugata di cultura, mistero e significati.
La Stampa 30.12.12
Pubblicato il 30 Dicembre 2012