Abbiamo superato il livello di guardia. La tracimazione mediatica di Silvio Berlusconi, sulle sue reti domestiche e su quelle pubbliche, sgorga ormai come una fogna a cielo aperto, con tutti i suoi detriti, i suoi veleni e i suoi miasmi. Una nube tossica che minaccia di inquinare la regolarità della competizione elettorale. E dunque, un’emergenza democratica che a questo punto chiama in causa direttamente le più alte cariche dello Stato: dal presidente della Repubblica, nel suo ruolo istituzionale di garante “super partes” dell’unità nazionale, ai presidenti delle due Camere, al di là della rispettiva estrazione e appartenenza. Non basta più la “par condicio”, avevamo già scritto su questo giornale sabato scorso.
Ma non bastano più neppure la Commissione parlamentare di Vigilanza e l’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni. Né bastano le leggi e i regolamenti che pure sono in vigore e vengono sistematicamente violati, elusi, trasgrediti. Questo è il golpe mediatico di un “caudillo” ridotto alla disperazione, deciso a giocarsi il tutto per tutto, sulla pelle del Paese e su quella dei cittadini.
È lo stesso Berlusconi, del resto, ad ammettere il proprio degrado in una sorta di autoconfessione pubblica, quando dichiara sprezzantemente di essere “sceso in politica” dall’alto della sua posizione economica, raggiunta – come ben sappiamo – con la copertura e la complicità dei vecchi protettori politici. E lo dice in polemica con il professor Monti che invece aveva appena rivendicato con orgoglio di essere “salito in politica”, con quello spirito di “civil servant” che tutti – sostenitori e avversari – dobbiamo riconoscergli, anche indipendentemente dal giudizio sul suo impegno di governo. Il Cavaliere, dunque, è “sceso in politica” come in un bassofondo della vita pubblica nazionale; un luogo malfamato e malavitoso che in questi ultimi vent’anni lui non ha certamente contribuito a risanare.
A proposito delle sue reti tv, che funzionano in regime di concessione pubblica e che quindi Berlusconi controlla in via temporanea come ogni altro operatore privato, abbiamo pure ricordato nei giorni scorsi che quel simulacro di legge sul conflitto di interessi firmata dall’ex ministro Frattini dovrebbe impedire
qualsiasi forma di “sostegno privilegiato”: cioè di “vantaggio, diretto o indiretto, politico, economico o di immagine”. Ma l’Authority sulle Comunicazioni s’è limitata finora a recitare pilatescamente la consueta litania su “imparzialità, equità, completezza, correttezza, pluralità dei punti di vista ed equilibrio delle presenze dei soggetti politici”. E ieri il malcapitato presidente Cardani, designato dal governo dei tecnici, ha dovuto confessare candidamente la propria impotenza ammettendo che le sanzioni pecuniari sono modeste e che, al limite della delegittimazione istituzionale, “è difficile il ripristino del pluralismo in questa fase”.
Ma in realtà il vero “buco nero” resta quello della Rai. Un servizio pubblico allo sbando, guidato da un presidente e da un direttore generale – anche loro insediati dal cosiddetto governo dei tecnici – che si muovono, o non si muovono, nei meandri del servizio pubblico come Alice nel paese delle meraviglie. Ma, dietro la facciata apparentemente rispettabile, agiscono dietro le quinte i fantasmi di un vecchio sistema che fa capo ancora all’onnipotente dottor Letta e ad alcuni esponenti di qualche “cricca” di sottopotere.
Con il candore degli sprovveduti, il direttore generale scrive allora al presidente della Vigilanza per giustificarsi e riconoscere di essere stato scavalcato dai direttori di rete, appena nominati dal Consiglio di amministrazione di cui lui stesso fa parte, con le lodevoli eccezioni dei due rappresentanti indicati dal Partito democratico, l’ex pm Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi. Ma che cos’è, dunque, quella di Gubitosi?
Un’autodenuncia o un preannuncio di dimissioni? In quale azienda normale, il direttore generale viene pubblicamente ignorato, smentito, contraddetto dai suoi sottoposti in ordine gerarchico, senza trarne le conseguenze, senza che non accada nulla e tutto rimanga come prima?
Da “Domenica In” a “Unomattina”, nonostante la raccomandazione ufficiale di non ospitare personaggi politici in trasmissioni di intrattenimento, il leader del partito che non c’è più continua a essere interrogato dal conduttore di turno, senza un autentico contraddittorio che assicuri – appunto – il pluralismo e l’equilibrio dei soggetti politici. In pratica, un monologo, un soliloquio. E se anche fosse vero l’ultimo incidente con Massimo Giletti, “se m’interrompe me ne vado”, francamente assomigliava più a una sceneggiata che a un litigio.
Una particolare menzione di demerito va rivolta infine a Sky Tg 24. In una patetica e imbarazzante telefonata in diretta con don Gelmini, trasmessa la sera di Santo Stefano, il telegiornale satellitare ha consentito a Berlusconi di sfruttare la figura e l’immagine tremolante di un sacerdote quasi novantenne che lotta contro la droga, per fare un comizio elettorale sullo “spread” e sui “diktat” della Germania, prima di essere tardivamente “sfumato” dalla regia. Un’indecenza e una vergogna che, per l’“Unto del Signore”, gridano vendetta al cielo. E che forse dovrebbero anche indurre la Chiesa italiana a riflettere sulle sue responsabilità pregresse, in ordine alla deriva morale del berlusconismo.
La Repubblica 28.12.12
Pubblicato il 28 Dicembre 2012
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