Voglio un libro che possa infilarmi in tasca o tenere insieme ai suoi confratelli sugli scaffali della mia libreria, riscoprendolo per caso perché mi ci cade l’occhio sopra. Quando ero ragazzo, alcuni dei miei parenti anziani, e anche un cugino giovane che vedeva male, usavano le lenti di ingrandimento per leggere. L’introduzione di libri a grandi caratteri, negli anni Sessanta, fu una manna dal cielo per loro e per tutti i lettori ipovedenti. Spuntarono fuori case editrici specializzate in edizioni a grandi caratteri per biblioteche, scuole e singoli lettori, e nelle librerie o nelle biblioteche trovavi sempre qualche libro del genere.
Nel gennaio del 2006, quando cominciai ad avere problemi alla vista, mi chiedevo come avrei fatto. C’erano gli audiolibri – qualcuno ne avevo registrato io stesso – ma io sono essenzialmente un lettore, non un ascoltatore. Sono un lettore incallito da quando ho memoria: spesso conservo nella mia mente quasi automaticamente numeri di pagina o l’aspetto dei capoversi e delle pagine, e sono in grado di trovare all’istante un certo passaggio in quasi tutti i miei libri. Io voglio libri che mi appartengano, libri la cui impaginazione intima mi diventi cara e familiare. Il mio cervello è tarato sulla lettura e quello che mi serve sono sicuramente i libri a grandi caratteri.
Ma oggi trovare testi di qualità in questo formato in una libreria è un’impresa. L’ho scoperto di recente quando sono andato da Strand, la libreria newyorchese famosa per i suoi chilometri di scaffali, dove mi rifornisco da mezzo secolo. Avevano una sezione (piccola) dedicata ai libri a grandi caratteri, ma era occupata prevalentemente da manuali e romanzi spazzatura. Nessuna raccolta di poesie, nessuna opera teatrale, nessuna biografia, nessun saggio scientifico. Niente Dickens, niente Jane Austen, nessuno dei classici; niente Bellows, niente Roth, niente Sontag. Sono uscito frustrato, e furioso: gli editori pensano forse che chi ha disturbi alla vista abbia anche disturbi al cervello?
Leggere è un compito enormemente complesso, che richiede l’intervento di varie parti del cervello, ma non è un’abilità che gli esseri umani hanno acquisito attraverso l’evoluzione (a differenza del parlare, che è in buona parte una capacità innata). Leggere è uno sviluppo relativamente recente, che risale forse a cinquemila anni fa ed è regolato da una minuscola area della corteccia visiva del cervello. Quella che oggi chiamiamo «area per la forma visiva delle parole» fa parte di una regione corticale che si è evoluta per riconoscere forme elementari in natura, ma che può essere riadattata al riconoscimento di lettere o parole. Questa forma elementare, o riconoscimento di lettere, è solo il primo passo.
Da questa area per la forma visiva delle parole bisogna creare connessioni bidirezionali a molte altre parti del cervello (tra cui quelle che sovrintendono alla grammatica, ai ricordi, alle associazioni e alle sensazioni) perché le lettere e le parole acquisiscano i loro significati specifici per noi. Ognuno di noi forma percorsi neurali unici associati alla lettura, e ognuno di noi apporta all’atto del leggere una combinazione unica non solo di ricordi ed esperienze, ma anche di modalità sensoriali. Alcune persone magari «sentono» i suoni delle parole mentre leggono (a me succede, ma solo quando leggo per piacere, non quando leggo per informazione); altri magari le visualizzano, consapevolmente o meno. Qualcuno può avere una percezione acuta dei ritmi acustici o dell’enfasi di una frase; altri sono più sensibili all’aspetto o alla forma.
Nel mio libro L’occhio della mente descrivo due pazienti, entrambi scrittori di talento, che avevano perduto la capacità di leggere a causa di un danno cerebrale all’area per la forma visiva delle parole, che è collocata vicino alla parte posteriore del lato sinistro del cervello (i pazienti affetti da questo tipo di alessia sono in grado di scrivere, ma non riescono a leggere quello che hanno scritto). Uno di loro, nonostante fosse un editore e amasse la carta stampata, per «leggere» si convertì seduta stante agli audiolibri, e invece di scrivere i suoi libri cominciò a dettarli. La transizione avvenne senza intoppi, apparentemente in modo quasi naturale. L’altro, un giallista, era troppo abituato a leggere e scrivere per rinunciarvi. Continuò a scrivere i suoi libri e trovò, o escogitò, un nuovo e straordinario modo di «leggere»: la sua lingua cominciava a copiare le parole di fronte a lui, disegnandole sull’interno dei denti; in pratica leggeva scrivendo con la sua lingua, sfruttando le aree motoria e tattile della sua corteccia. Anche in questo caso la transizione sembrò avvenire in modo naturale. Il cervello di ognuno dei due, usando i propri punti di forza e le proprie esperienze specifiche, trovò la soluzione giusta, l’adattamento migliore alla perdita subita.
Per qualcuno che è nato cieco, senza nessun tipo di immagini visive, la lettura è essenzialmente un’esperienza tattile, attraverso i caratteri in rilievo dell’alfabeto Braille. I libri in Braille, come i libri a grandi caratteri, ora sono meno numerosi e meno facili da trovare, perché la gente si rivolge agli audiolibri, meno costosi e di più facile reperimento, o ai programmi vocali dei computer. Ma c’è una differenza fondamentale fra leggere e farsi leggere. Quando una persona legge attivamente, sia che usi gli occhi sia che usi le dita, è libera di saltare avanti o indietro, di rileggere, di fermarsi a riflettere o lasciar divagare la mente a metà di una frase: si legge con i propri tempi. Farsi leggere, ascoltare un audiolibro, è un’esperienza più passiva, soggetta ai capricci della voce di un’altra persona e che segue prevalentemente i tempi del narratore.
Se nel corso della nostra vita ci troviamo costretti ad apprendere nuovi modi di leggere, magari perché abbiamo sviluppato problemi alla vista, ognuno di noi deve adattarsi a suo modo: qualcuno si converte all’ascolto, altri continuano a leggere finché possono; qualcuno ingrandisce i caratteri sul lettore di e-book, altri i caratteri sul computer. Io non ho mai adottato nessuna di queste tecnologie: almeno per il momento rimango fedele alla buona vecchia lente d’ingrandimento (ne ho una dozzina, di forme e gradazioni differenti).
Gli scritti dovrebbero essere accessibili nel maggior numero di formati possibili: George Bernard Shaw chiamava i libri la memoria della razza. Non dobbiamo consentire la scomparsa di nessuna forma di libro, perché siamo tutti individui, con esigenze e preferenze fortemente individualizzate: preferenze radicate nei nostri cervelli a ogni livello, con i nostri modelli neurali e le nostre reti neurali individuali che creano un dialogo profondamente personale fra autore e lettore.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
La Repubblica 27.12.12
Pubblicato il 27 Dicembre 2012