E. è UNA ragazza rom, ha un bambino di neanche due anni, ed è incinta. Ci sono altri due bambini nella sezione femminile che hanno meno di tre anni. Nel corridoio c’è un albero di Natale finto coperto di stagnola e di strisce di cotone. C’è un albero artificiale anche nel corridoio della sezione maschile, con dei pendagli di cartone colorato.
VENGONO sua madre, sua moglie e la bambina, che ha 11 anni. Hanno fatto la coda per quattro ore, in strada, e pioveva, ma non glielo diranno. Lui si è preparato fin dalle sette, benché le celle vengano aperte solo alle dieci. Ha fatto la doccia, anche se le caldaie sono guaste e l’acqua è fredda, ma non glielo dirà. Ha fatto una domandina per portare dei cioccolatini alla bambina. Lei ha imparato una poesia e gliela reciterà: “Il campanile scocca / la mezzanotte santa”.
La ragazza rom incinta incontra suo marito, un ragazzo anche lui, e un altro suo bambino che avrà quattro anni. Il ragazzo a un tratto la insulta, lei piange, anche i bambini piangono, poi passa. I colloqui finiscono dopo l’una. Quelli, la maggioranza, che non ricevono visite, sono chiusi già da più di un’ora. Alcuni erano andati all’aria, non tanti, fa freddo. Chi era al colloquio mangerà freddo, tanto non ha fame. Chi ha ricevuto posta sta sdraiato in branda e la legge per un’ennesima volta. Anche chi non l’ha ricevuta sta in branda, perché non c’è altro posto in cui stare.
Alle due si può tornare all’aria. Oggi alla sezione penale spetta il campetto di terra, dove si può giocare a pallone se si trova un pallone, e poi si sentono le voci del femminile. A Natale le voci dei bambini incarcerati fanno più impressione. C’è un tubo da cui esce un filo d’acqua rugginosa. C. raccoglie il filo d’acqua nel cavo di una mano, tiene l’altra appoggiata al muro. Ha posato in terra gli occhiali da miope, con la montatura tenuta da un nastro adesivo. Avrà una sessantina d’anni, è tarchiato.
Arriva N., uno di pochi anni e pochi muscoli, istoriato di tatuaggi da strapazzo, vuole il posto. “Scansati, pezzo di merda!”, intima. L’altro è chinato e fa finta di non sentire, o davvero non sente. Il ragazzo gli sferra un calcio nel fianco, e lo manda a sbattere sul muro. L’uomo si volta e mostra i denti, ma solo per un momento, poi si allontana piegato com’è, con una specie di guaito. Il ragazzo dà un calcio agli occhiali e si prende il suo filo d’acqua sporca, poi torna alla partita.
Il pivello è nessuno, uno scapparifero da casa. L’uomo è un assassino. Ha ucciso sua moglie, due anni fa, con un coltello da cucina. Quarantatré coltellate, secondo la perizia. Erano una coppia di paese, non più giovane, la cosa è sì e no arrivata alle cronache locali: “Tragedia della gelosia”. Gli altri vanno e vengono. Tengono gli occhi bassi, per lo più, sembrano assorti in qualcosa di essenziale. Forse, semplicemente, contano i passi. Non è appropriato, per la verità, dire “semplicemente”, per un’operazione impegnativa come contare i passi. È come pregare coi piedi. Fuori la gente dice, alla leggera: “Conto i minuti”, “Conto le ore”, “Conto i giorni” — “Conto gli anni no”, non lo dice — e vuol dire che non vede l’ora che qualcosa succeda.
Qui contano davvero gli anni, e anche le notti e le ore e i minuti, ma soprattutto, per vendicarsi del tempo che ti passa addosso a fondo perduto, contano i passi. Migliaia, centinaia di migliaia, milioni di passi.
Su e giù all’aria, da un muro all’altro, quaranta all’andata e quaranta al ritorno, e anche in cella, se la ressa lo permette, tre dal muro al blindo e ritorno, come se i passi accumulati avvicinassero la meta. Ma sono passi davvero perduti, come chiamano futilmente il corridoio di quel parlamento dove due giorni fa, alla vigilia di Natale, hanno cancellato i pochi fondi per il lavoro in carcere e la misera legge sulle pene alternative. Se i giudici sapessero di che cosa parlano, farebbero alzare in piedi l’imputato e gli direbbero: “Per questo e quest’altro, caro signore, la Corte la condanna a quattordici milioni e seicentotrentaset-temilacinquecentododici passi”.
M. è un ergastolano cui è vietata la speranza, lui non conta i passi, e nemmeno i Natali che gli mancano: tutti i Natali della vita. Alle quattro di pomeriggio sono tutti chiusi di nuovo, passa la conta e la battitura ferri, e poi la terapia. J. prende il metadone e finge di inghiottire: lo fa benissimo. Poi lo risputa in un bicchierino di carta, lo venderà a uno del secondo piano per un rotolo di igienica. R. ingoia sul serio il suo Tavor — è obbligatorio prendere i farmaci davanti a infermiere e agente, anche se è un analgesico e il mal di denti arriverà fra cinque ore. R. ha un solo desiderio: addormentotarsi e risvegliarsi quando le feste saranno passate. Le celle restano chiuse dalle sedici alle dieci del giorno dopo.
A mezzanotte lo scampanio arriva fin qui dentro. P. è polacco e si tiene sveglio perché sa che a casa preparano anche per lui e suo padre versa anche nel suo bicchiere e beve per suo conto.
La mattina di Natale quasi tutti si preparano per la messa, anche quelli che non ci vanno mai. Viene il vescovo oggi, poi andrà a dire la messa solenne per la brava gente in Duomo. Vengono anche i musulmani — solo qualche duro se ne astiene. I musulmani hanno una devozione per Maria e per Gesù, e poi la messa del Natale è la più grande occasione per incontrarsi. Il vescovo dice che è questo il posto giusto per il Natale, che le celle sono il luogo più somigliante alla grotta al freddo e al gelo. Dice che c’è una differenza fra la giustizia e Dio, e che Dio non può farli uscire dalla galera, ma può liberarli dalla schiavitù del peccato, perché li ama.
Qualche vescovo dice che Dio ama loro specialmente. L’idea che un Dio bambinello appena nato in una stalla ami specialmente loro fa venire le lacrime agli occhi, e anche certi gran farabutti sono un po’ sinceri, come ragazzini presi in fallo. I detenuti sono devoti soprattutto alla Madonna, e il Natale in carcere è una festa della mamma. Quando l’officiante esorta a scambiarsi un segno di pace, i detenuti vorrebbero darla e prenderla a tutti i presenti, mano di carcerato con mano di carceriere, mano di nigeriana con mano di romeno, finché maresciallo e appuntati non mettono fine a quell’allarmante viavai.
E comunque C., che ha accoltellato la sua anziana moglie, avrà dato la mano al pivello N. e alla suorina, e per un momento tutti i debiti saranno rimessi a tutti. Intanto, approfittando della ridotta vigilanza, il giovane B., all’isolamento, che aveva fatto il matto per essere portato alla messa anche lui, si è impiccato con la sua canottiera a un calocartafreddo: se muoia o si salvi, non lo diremo.
Dopo la messa gli agenti incalzeranno i fedeli che indugiano come scolari alla fine della ricreazione. Passerà però ancora la suora con qualche regaluccio. C’è un pranzo speciale, oggi, e chi può ha fatto una spesa da festa. (Ognuno dei 67 mila detenuti costa 250 euro al giorno allo Stato, il quale spende 3 — tre — euro per il mantenimento quotidiano del detenuto, colazione pranzo e cena…). Così uno strascico di euforia dura ancora, nonostante una sequela di cancelli blindati si sia richiusa su ogni rapporto col mondo di fuori. Volontari, vescovi, educatori e visitatori se ne sono andati, ciascuno a fare Natale con i suoi. È come se si fossero portati dietro l’aria bianca e rossa del Natale.
Per due giorni — anche domani è festa — si resterà soli, senza visite, senza posta, senza telefonate. Senza. Si capisce che la vera aria del Natale, l’aria triste, si insedi ora sovrana nelle celle.
Una volta si dava a Natale un bicchiere di cattivo spumante a ogni detenuto, e un piccolo mercato moltiplicava le dosi di chi anelava al sonno o alla rissa. I propositi di bontà della mattina scadevano prima del tramonto: bontà e cattività vanno male assieme. Ma anche a spumante abolito — “Economia, Orazio, economia!” — non c’è niente di più triste di un pomeriggio di Natale. Fra poco, si sentirà russare, gemere, urlare. E i televisori a tutto volume, non guardati da nessuno, finché un agente arriverà a dire di spegnere. Poi andrà a sedersi al suo tavolino, in quei rumori di zoo umano. È un giovane agente che prova a studiare perché si è iscritto a legge, è in servizio perché non ha una famiglia propria, e i suoi stanno ad Avellino, così ha sostituito volentieri un collega padre di famiglia. Ha una radiolina accesa e l’auricolare, per ascoltare i racconti dei radicali che hanno passato Natale in carcere.
Dietrich Bonhoeffer era un pastore luterano, fu impiccato dai nazisti. In un Natale, dalla prigione, aveva scritto una lettera ai suoi: “Che Cristo sia nato in una stalla perché non trovava posto negli alberghi, è una cosa che un carcerato può capire meglio di altri”.
La Repubblica 24.12.12
Pubblicato il 25 Dicembre 2012